Quando nel 1980 progettò e curò al Palazzo Reale di Milano L’altra metà dell’avanguardia, Lea Vergine si era augurata che la mostra diventasse una piattaforma, a partire dalla quale sviluppare ulteriori indagini e approfondimenti all’interno di singoli movimenti. Sono passati quasi quarant’anni da quella rassegna che aveva segnato un’epoca e il percorso auspicato da Lea Vergine trova oggi un nuovo sbocco, grazie al lavoro di Chiara Gatti e Raffaella Resh, che al Man di Nuoro hanno curato L’elica e la luce. Le futuriste 1912-1944 (sino al 10 giugno; catalogo Officina Libraria).
Il titolo scelto è immediatamente emblematico nella sua doppia possibile lettura. Elica e luce sono infatti due topos del veemente immaginario futurista, ma coincidono pure con i nomi propri delle figlie di Giacomo Balla, rimaste per tutta la vita sotto il giogo dell’autorità e del prestigio paterno. Le futuriste erano dunque pienamente sintonizzate con la sensibilità futurista, ma a volte, come chiarisce con meravigliosa crudezza la stessa Lea Vergine nell’intervista in catalogo, «per mancanza (forse) di carattere, si relegarono a vivandiere del movimento».
Certamente, per quanto ci si trovasse in un contesto d’avanguardia, non doveva essere affatto semplice liberarsi dall’egemonia di maschi con vocazione tanto bellicosa. Lo dimostra la scelta di alcune delle artiste di oscurare i propri cognomi e di farsi conoscere solo con il nome di battesimo, vero o anche reinventato. Ecco allora Benedetta, che diede un colpo di spugna sia al cognome paterno, Cappa, che a quello del marito, Marinetti; e poi Regina (Cassolo Bracchi), Brunas (Bruna Pestagalli Somenzi) e Barbara (Olga Biglieri Scurto). Tutte pronte a sfilarsi intelligentemente dalla loro identità anagrafica per garantirsi spazi di agibilità e di libertà.
Infatti neppure il legame affettivo con i protagonisti del movimento funzionava da garanzia: Boccioni aveva liquidato con parole di disprezzo il lavoro della cugina Adriana Bisi Fabbri, con la quale aveva avuto una relazione; Benedetta Cappa dovette invece difendersi dall’invadenza e dall’autoreferenzialità del marito Marinetti: gli dedicò anche un’opera caustica come Spicologia di 1 uomo, dove quell’1 in numero sottolinea l’incontenibile protagonismo di Filippo Tommaso.
Al netto delle debolezze e delle tante avversità, in mostra le protagoniste della lunga onda futurista rivelano però un’energia inattesa. Il loro è un approccio senza retorica, a volte anche ironico, ai dogmi del movimento. Spesso sorprendono con la loro poliedricità, che le porta a transitare con leggerezza tra stili e linguaggi diversi. Sono anche sperimentali senza nessuna ansia di essere oltranziste. Ad esempio Regina, nei suoi «quadri» intagliati in lamiera di alluminio, bilancia l’approccio avanguardistico con un senso compositivo molto delicato.
Chiara Gatti si chiede nel saggio in catalogo se esista «uno specifico femminile nella ricerca estetica che le ha accomunate». La mostra fornisce la risposta: questo specifico esiste e, pur nelle tante differenze e nel lungo arco di tempo dell’avventura futurista, in mostra lo si può ben rintracciare. La stessa Gatti lo delinea così: «Predisposte per natura a tastare tutto con il proprio corpo, sentirsi addosso i cambiamenti, lavorano sulla risultante plastica dell’incontro tra oggetto e ambiente, per dimostrare come l’opera d’arte fosse l’esito di un’osmosi tra interno ed esterno». Il corpo, dunque, sentito come componente soggettiva, non solo come complesso meccanico e dinamico: è certamente un elemento centrale di questo «specifico» del futurismo femminile. L’ebrezza fisica della maternità di Marisa Mori è un quadro molto emblematico in questo senso, come lo è L’amante dell’aviatore di Regina. Si avverte un gusto per la fisicità, nelle futuriste, che trapassa anche in opere dove il corpo non entra in gioco. La realtà viene goduta nei suoi aspetti fascinosi, respira più con gioia che con frenesia, sia che la si sorvoli in aereo come accade nelle opere di Barbara, con i suoi vortici di colori, sia che venga filtrata attraverso una fantasia visionaria come nelle opere di Benedetta. Lei spicca come la figura più compiuta del gruppo, capace di affrontare anche committenze complesse come quella, che l’ha resa famosa, al Palazzo delle Poste di Palermo.
Il corpo, scrive Raffaella Resch in catalogo, vissuto come «luogo di sperimentazione espressiva… è forse il contributo più determinante delle donne futuriste». Questa preminenza dell’aspetto fisico ha il suo sbocco quasi naturale nell’esperienza della danza. È stata una scelta azzeccata quella di scegliere come immagine simbolo della mostra il corpo danzante e arcuato di Giannina Censi, inguainato nel costume metallizzato disegnatole da Enrico Prampolini. Giannina metteva in atto l’ideale del «corpo moltiplicato» teorizzato da Marinetti (interpretò con successo il ruolo di Piff nella tournée di Simultanina, opera scritta dallo stesso Marinetti), tuttavia non si trasforma mai nell’automa auspicato dal fondatore del futurismo. In mostra le immagini proiettate su una grande parete delle sue Aerodanze o delle Danze Euritmiche (siamo nei primi anni trenta) lasciano un’impressione oltre che forte, molto chiara: le metafore meccaniche previste dagli spartiti vengono trapassate da un’energia così fisica e da un’audacia da prefigurare esperienze da body art. In questo le futuriste dimostrano di essere più nel futuro dei loro colleghi maschi.