Futuri contingenti (Manni, pp. 64, euro 13), la prima raccolta poetica, breve e densa, del quarantenne Gianluca Costanzo Zammataro, si apre con Due epigrammi che rimandano e fanno pensare, nel tono, a Tito Balestra, poeta di pochi decenni fa eppure già dimenticato – poeta di due soli libri, Quiproquo e Se hai una montagna di neve tienila all’ombra, che invece non dovrebbero essere dimenticati. Delle poesie di Balestra, Attilio Bertolucci diceva che potevano essere considerate un «modo di soffrire meno».

Le stesse cose potrebbero essere dette, forse, anche delle poesie, o almeno di molte delle poesie, di Costanzo Zammataro: l’arguzia e l’ironia scorrono nei suoi versi; un senso del dolore, addolcito dal disincanto e da un sentimento di abbandono e di riconoscenza alla grandezza ineluttabile della natura, sembra connotare la sua postura; perizia e virtuosità traspaiono dietro ogni componimento, ogni concatenazione.

L’IRONIA E L’ARGUZIA si leggono, ad esempio, in versi come questi: «Non soggetti al clamore degli affetti/sguazzando seguendo i destini/belli a mollo in un brodino da arrosti,/fumante, che ci lessava contento/le parti di carne a contatto». Il senso del dolore: «Chiedevi del tempo sottile, dentro al delicato scomporsi nel tuo vacillare/sperimentavo il legame antico/la culla intrico/del mio essere un organismo,/l’effetto d’amore di madre./Nell’ascoltare nella stanza/suppurare l’amaro/del mio fragile male». L’abbandono riconoscente alla natura, al suo ineluttabile divenire che relativizza ogni cosa, ogni stesso male: «Natura del fluire/e della trasparenza/non le è proprio l’opporsi/nemmeno la vista che guida/ma una gravità nell’istinto …/la virtù rinverdente/che bussa alle porte,/la forza umile per trovarsi pronti». La natura anche nella sua bellezza, celebrata attraverso virtuosismi perfino dannunziani: «Nel mattino/è un vago luccicore di verdura/piacere di sole/indora steli e viluppi/svaporanti un umidore,/oh quiete di rugiadose stille/nel verde cavo delle voglie/e di leggieri vellicamenti blandizie/sotto le piante ignude».

È UN ESORDIO difficilmente riducibile ad unum, questo di Costanzo Zammataro. Non esiste un unico nucleo, intorno al quale ruotino le poesie. O meglio: forse un nucleo può essere individuato, come fa Vincenzo Guarracino nella prefazione, nella presenza di «un fantasma dell’io» che «si aggira nelle selve dell’antropologica historia … con circospetta cautela». Ma è poi questa antropologica historia a risultare irriducibile, perché non c’è niente, di quel che la compone, che sfugga allo sguardo di Costanzo Zammataro: circostanze e situazioni personali o collettive, del passato come del presente o del futuro, animali, piante, materia, spirito, scienza.
Ed è proprio qui, forse, che risiede il significato del titolo: nella presa d’atto, abbandonato qualunque antropocentrismo bastante a sé stesso, che tutt’al più ciò a cui possiamo aspirare sono fragili, incerti «futuri contingenti».