Quando a fine 2012 è uscito Push The Sky Away erano passati cinque anni dall’ultimo album di Nick Cave con i Bad Seeds. Anche se ai fan più accaniti sembrava passato tantissimo tempo da Dig, Lazarus, dig!!!, in mezzo c’era stata molta attività. Quindi in realtà parlare di vero e proprio «ritorno» non sarebbe stato corretto, ma se lo fosse stato, si sarebbe trattato di un ritorno con i fiocchi. Push the sky away era quanto di più lontano dal blues rock grezzo e volutamente un po’ caotico del disco precedente. Era un disco che faceva riemergere i Bad Seeds più scuri, ma con una nuova veste, minimale, asciutta. Compressa come forza tranquilla. C’era una tensione sotterranea che pervadeva le canzoni di quell’album. Una forza mai liberata, un po’ nascosta ma percepibile. Inquietante. Una forza che se ne stava lì, come una belva pronta ad azzannarti. Alla fine ci si è accorti che Push the sky away non diceva nulla di nuovo su Nick Cave, ma rivisitava la sua musica da un’angolazione diversa e si è capito anche che quell’album poteva detonare al meglio in concerto, l’«ambiente» ideale per il rocker australiano, l’arena dove il vecchio e il nuovo repertorio ben assemblati e amalgamati finivano per incrociarsi e valorizzarsi.

Ed è proprio quello che è successo nel lungo, lunghissimo tour che è seguito all’uscita dell’album. Un tour che ha toccato l’Italia nei giorni scorsi e a Roma si è accasato all’interno della Sala Santa Cecilia dell’Auditorium. Una sala gremita, che appena è entrato Nick Cave ha restituito tutta l’elettricità di un evento che aspettava da tempo. Cave non aveva nessuna intenzione di lasciare seduti gli astanti, ma si è concesso una canzone di stretching, prima di far detonare la bolgia che aveva preparato e che tutti volevano. Fin dalle note iniziali di We no who u r (e dal suo titolo minaccioso) si è assistito alla messa in scena di un’unione di opposti, di suoni oscuri (i bassi ossessivi di Martyn P. Casey) e melodici (gli archi di Ellis, le tastiere di Barry Adamson e la voce di Cave). E anche il testo di We no who u ur è sembrato una metafora della doppia anima dell’autore. Quando la band ha attaccato il secondo pezzo, Jubilee Street, il leader si è fiondato tra il pubblico e ha iniziato un prolungato petting di sguardi, struscii, occhiate, corse, scalate delle poltrone e cavalcate sulle spalle degli astanti. Un petting che non sarebbe terminato se non un paio d’ore più tardi. Quello di Cave è senz’altro un concerto «di parola», da seguire passo passo col libretto dei testi davanti, come quando si canta la messa, come quando si va all’Opera, ma allo stesso tempo è anche un sabba infuocato. C’erano anche altre cose sulle quali concentrarsi l’altra sera e c’era ad esempio da verificare la giustezza di un pronostico su cui molti avevano scommesso.

Pronostico facile: quello per il quale, con l’abbandono di Mick Harvey prima e di Blixa Bargeld poi, a prendere il posto da vicecapitano nei Bad Seeds sarebbe stato Warren Ellis, fino ad ora «soltanto» primo violino. Facile, perlomeno, una volta che lo si era visto prender parte alla parentesi con i Grinderman e, soprattutto, in coppia con il leader a ben quattro sonorizzazioni di altrettante pellicole: The Assassination of Jesse James di Andrew Dominik, e la trilogia di John Hillcoat, The Proposition, The Road e Lawless. Ellis anche sul palco di Roma è andato tessendo una tela rigogliosa, mentre il suo sodale interrogava il mondo da fermo, e gli bastava un attimo per scendere dalle alte vette liriche che gli sono famigliari alle derive più grette. Il concerto pescava materiale da un repertorio davvero succulento e vedeva la «cattiva progenie» piazzata sul palco in ordine sparso come a cavalcare con non chalance una surplace creativa sempre più disinibita. E così il pubblico dell’auditorium si è trovato di fronte a dei Bad Seeds romantici, jazzistici, natalizi, impressionistici, elettrici. Sempre, comunque, molto tonici. Più o meno a metà scaletta è arrivato anche il momento più intimo del concerto con Cave spesso al piano e un’atmosfera rarefatta che si increspava solo a folate…canzoni come Love Letter, Sad Waters.

Il pubblico se lo coccolava mentre cantava d’amore e di morte (non è sempre la stessa cosa?) e lui lasciava fare, anzi continuava a incitare tutti al coinvolgimento epifanico. Sono arrivati infine classiconi come The Mercy Seat e Stagger Lee, ed è arrivata Push The Sky Away che chiudeva il tracciato dell’ultimo album e ha chiuso sommessamente, con un dondolio tremolante e ispirato, anche la scaletta ufficiale del concerto. E poi il bis, dove si sono succeduti come fiumi impetuosi anche God Is In The House, Deanna, e Nick Cave ha finalmente potuto cominciare a pensare alla tappa successiva del tour senza nessun rimpianto, lasciando dietro di sé solo una scia di furore, poesia e meraviglia.