Chissà se John Ford ha letto The Grapes of Wrath? Nel romanzo di Steinbeck – di cui il produttore Darryl F. Zanuck acquista i diritti sin dall’uscita – dirà a Bogdanovich di aver visto subito «a good story» che gli ricorda la tragedia della carestia in Irlanda «quando i suoi antenati venivano cacciati dalle terre e lasciati a vagabondare per le strade a morire di fame». Ma in un’altra occasione, non esita a dichiarare: «Non l’ho mai letto!». Naturalmente deve averlo letto almeno Nunnaly Johnson, l’autore di una sceneggiatura che passa per fedele, quando in realtà elimina gli interludi meditativi e nella seconda parte rovescia l’ordine degli avvenimenti mettendo prima la sosta nella fattoria presidiata dai contadini in sciopero e poi il breve soggiorno nel campo governativo, tagliando del tutto i capitoli sull’inondazione e il tragico finale.

L’inizio – con Henry Fonda che cammina in mezzo alla strada – è folgorante. Subito dopo l’autostop e l’incontro con Casey, l’ex pastore che ha perso la vocazione, Tom scopre che nella vecchia casa dei suoi in Oklahoma non c’è più nessuno. Se non accendesse un fiammifero, il fotogramma resterebbe nero. Ma è dal buio che appare Muley, il solo che è rimasto: «Non sono che un fantasma, un fantasma senza pace». Le tempeste di vento hanno devastato le terre e la Società Agricola Shawnee, spalleggiata dalle banche, ha cacciato tutte le famiglie dei piccoli mezzadri.

L’apparizione di Muley nella casa vuota, con la rievocazione della tragedia, è interrotta da tre brevi flashback in cui dall’annuncio che se ne dovranno andare si passa al trattore che alla fine avanza distruggendo la loro casa. La sequenza è fondamentale, perché proprio nella contrapposizione tra le sottolineature d’impronta espressionista, da cui emergono i volti di Muley, di Tom e di Casey, e la illuminazione forte e piatta dei flashback che scandisce i ritmi devastanti e ineluttabili della industrializzazione, si colgono i due poli del dramma.
Non solo Muley, ma tutti i contadini sono altrettanti fantasmi, i fantasmi del passato, mentre incalza brutale e inarrestabile il presente della meccanizzazione. Sfrattati dalla loro casa, i Joad si sono trasferiti provvisoriamente dallo zio John prima di affrontare il grande viaggio. Anche Ma’ Joad è pronta. Tira fuori dalla borsa e guarda per l’ultima volta i ricordi di una vita, tra cui la cartolina della Statua della Libertà di New York, che non esita a buttare nel fuoco. Quando trova mentre risuonano le note di gli orecchini, se li prova , Red River Valley.

Subito dopo Ombre rosse (1939), Furore (1940) conferma la piena maturità di Ford, lo straordinario storyteller pronto a affrontare, dentro e fuori del suo genere d’elezione, le grandi avventure dei prossimi decenni. Nonostante il parere negativo del regista – «Non è un film sociale. È la storia di una famiglia che se ne va per cercare il suo posto nel mondo»– oggi il film è considerato un classico del cinema sociale ispirato al New Deal rooseveltiano, che è riuscito a sottrarsi ai diktat del Codice Hays e alle ipocrisie hollywoodiane. Ma è anche l’archetipo del film di viaggio, dell’on the road degli anni sessanta, con l’odissea dei Joad che percorrono la Route 66 dall’Oklahoma alla California, attraverso una serie di insegne e di divieti, gli alti e i bassi di un viaggio impossibile a bordo di uno sgangherato camion.

Quando arrivano finalmente in California vengono indirizzati al campo profughi, dove la carrellata d’ingresso scopre la miseria, il degrado, la fame. Qui la suggestione dei documenti fotografici della Farm Security Administration, soprattutto quelli di Dorothea Lange, contribuisce a imprimere al racconto i tratti di una dolente drammaticità. Il clima al Ranch Kenny è ancora peggio, claustrofobico come un campo di concentramento. Il campo governativo, allestito dal Dipartimento dell’Agricoltura, a cui finalmente arrivano , è un altro pianeta, senza guardiani, con rappresentanti regolarmente eletti, abitazioni dignitose e servizi igienici. Nel ballo del sabato Tom fa danzare Ma’, lasciando trasparire il rapporto profondo (edipico?) che li lega. Ma Tom deve andarsene perché la polizia gli dà la caccia. L’ultimo incontro tra madre e figlio è una delle scene più celebri dell’intero film, che conferma qui il suo carattere di parabola, di viaggio verso la terra promessa di ascendenza biblica. Tom si sente come «un pezzetto di un’anima più grande»: «Me ne andrò in giro, nel buio. Dovunque guarderai, mi potrai vedere. Dovunque si combatte per dar da mangiare alla gente affamata, là ci sarò». Il film finisce qui con la silhouette di Tom che se ne va in campo lunghissimo. Ma Zanuck volle aggiungere un’altra sequenza in cui i Joad lasciano il campo per andare a Fresno a raccogliere il cotone. Ford accetta purché sia il produttore a girarla. Ma’ Joad tra il marito e il figlio più giovane al volante, fa il bilancio della tremenda esperienza. Qualsiasi cosa accada, non ha più paura: «Noi siamo il popolo, non possono eliminarci. Noi esisteremo per sempre, perché noi siamo il popolo».

Il romanzo di Steinbeck: lirici e apocalittici paesaggi attorno agli «okies»
John Steinbeck – nato il 27 febbraio 1902 a Salinas, piccolo centro agricolo della California a otto chilometri dall’Oceano, e morto a New York il 20 dicembre 1968 – si afferma prima come giornalista e poi come narratore con Tortilla Flat (1935), In Dubious Battle (1936), Of Mice and Men (1937), e più di una decina di altri romanzi. Quando nell’aprile 1939 esce negli Stati Uniti, The Grapes of Wrath, nel primo anno vende quasi mezzo milione di copie, rimanendo fino a oggi sul mercato planetario con il record di quindici milioni di volumi. L’enorme successo di pubblico – a cui non manca il consenso della critica – è avvelenato dall’atteggiamento di alcune associazioni degli agricoltori e di comitati scolastici che chiedono di metterlo al bando come «comunista», addirittura finendo in qualche caso con il bruciarlo in piazza. L’anno seguente al romanzo viene assegnato il Premio Pulitzer. Nel 1962 gli verrà assegnato il Premio Nobel.

The Grapes of Wrath, il film che John Ford trae dal romanzo, esce in Usa il 15 marzo 1940, ottenendo l’anno dopo l’Oscar per la miglior regia e quello per la migliore attrice non protagonista Janet Darwell, la mitica Ma’ Joad. Il premio per il miglior film va invece a Rebecca, l’esordio americano di Alfred Hitchcock. Se il film di Ford uscirà in Italia soltanto nell’aprile 1952, il romanzo arriva in libreria nel gennaio 1940, con il titolo Furore, pubblicato come gli altri romanzi dell’americano dall’editore Valentino Bompiani. La traduzione appare con tagli e rimaneggiamenti imposti dal Ministero della Cultura Popolare. Solo nel 2013 nei Classici Contemporanei di Bompiani esce la molto attesa nuova versione integrale di Sergio Claudio Perroni che, come ha scritto Mario Andreose, «ha saputo ricreare i diversi registri linguistici utilizzati da Steinbeck per comporre il suo immenso affresco: la presenza ora lirica ora apocalittica del paesaggio, l’incombere mostruoso dei trattori come mano armata delle banche, i dialoghi scarni, gergali dei okies, i contadini dell’Oklahoma».

Nel 1995 si ispira al romanzo The Ghost of Tom Joad di Bruce Springsteen: «L’autostrada è viva stasera/ ma nessuno prende in giro nessuno/ su dove porti ,/ sto qui seduto alla luce del falò/ cercando il fantasma di Tom Joad./ Lui prende un libro di preghiere dal proprio sacco a pelo,/ il predicatore accende una sigaretta e aspira/ aspettando il giorno in cui l’ultimo/ sarà il primo e il primo sarà l’ultimo/ dentro una scatola di cartone nel sottopassaggio/ hai un biglietto di sola andata verso la terra promessa,/ hai un buco nello stomaco per la fame e una pistola in mano/ dormi su un cuscino di pietra dura/ ti lavi negli acquedotti della città./ Tom disse: mamma, ovunque trovi un poliziotto che picchia un ragazzo,/ ovunque trovi un neonato che piange per la fame/ dove ci sia nell’aria la voglia di lottare contro il sangue e l’odio, cercami mamma, io sarò lì./ Ovunque trovi qualcuno che/ combatte per un posto dove vivere/ per un lavoro dignitoso, un aiuto,/ ovunque trovi qualcuno che lotta per essere libero,/ guarda nei loro occhi, mamma, vedrai me./Sto qui seduto alla luce del falò/ con il fantasma di Ton Joad».