Nell’ormai remoto ’68, ai tempi della guerra nel Vietnam, uscì un film di Ingmar Bergman, La vergogna, a mio parere allora sottovalutato (ma se la memoria non mi inganna proprio sul manifesto uscì un lungo simpatetico pezzo di Rossanda).

Racconta di due violinisti, marito e moglie, che, scioltasi la loro orchestra, si ritirano in un’ isola facendo i contadini. Si amano, lei, come spesso in Bergman, è forte e luminosa (una straordinaria Liv Ullman), lui (Max von Sidow) debole e nevrotico. Vengono travolti dalla guerra: eserciti rivali conquistano e cedono terreno, uccidono uomini e animali, incendiano case e boschi. La violenza generale trasforma in pluriomicida il mite e pavido protagonista maschile, umilia e spezza la vitalità della moglie. Il film si conclude con un tentativo di fuga dei due (circa il cui esito nulla si saprà) su un barcone che lentamente si fa strada in un mare pieno di cadaveri.

Credo che pochi altri film mostrino l’ insensatezza di qualunque guerra (Bergman non prende partito né cerca di capire le ragioni e i torti, cosa che a quei tempi gli venne rimproverata) e come la violenza distrugga comunque negli uomini ogni traccia di umano: resta solo, indelebile, la vergogna.

In questi anni furibondi e disumani, di guerre per bande (che siano forze speciali ultratecnologiche o militanti fanatici che si rivivono secondo i modelli dell’immaginario di massa globalizzato, sempre bande sono) in cui spesso le parti si rovesciano o si intrecciano come nemmeno nel Kamasutra, il sentimento in me prevalente è proprio quello della vergogna. Per impotenza e inadeguatezza mie, per la mediocrità e l’insipienza di tutta la politica mondiale (mi pare si salvino solo il Papa e Putin, quest’ ultimo se non altro per la concretezza e l’indubbia capacità di commisurare le azioni ai fini), soprattutto per la regressione ottusa dei movimenti che un tempo avremmo chiamato reazionari o fascisti e che ora si chiamano impropriamente populisti. Un’ottusità frustrante per chi sia interlocutore dissenziente perché inibisce ogni possibilità di discussione: a un certo punto vien meno anche il linguaggio.

Seguendo una suggestione di Piergiorgio Giacché su “Lo Straniero” (marzo 2016), direi che, privi di una forza reale che più o meno si innervi su una cultura e su un progetto, abbiamo attraversato non tanto o non solo una trasformazione, quanto piuttosto una mutazione, quindi qualcosa di subìto inconsapevolmente: quando te ne accorgi sei già di un’altra specie. Scrive Giacché: «È sempre più chiaro che la trasformazione correva verso un fine mentre la stagnazione stagna come una fine». La trasformazione in qualche modo rende partecipi, la mutazione lavora sull’inconscio antropologico.

Torna allora di attualità la vecchia domanda su che cosa sia l’uomo, questa individualità vivente che si attua solo interagendo col mondo e con gli altri, uscendo quindi da sé, dalle comode e rassicuranti astrazioni ideologiche e dottrinarie cui così volentieri indulgiamo. È ancora possibile fare pulizia nei sentimenti e nei pensieri, nella ragione e nell’intuizione, spazzando via tutta la merda che, come in una vignetta di Altan, ci bombarda giorno e notte e magari scambiamo ancora per informazione e cultura? Non per recuperare una verginità che solo le anime belle possono illudersi sia mai esistita ma per non essere ombre vive e trovare un accordo sul metro (per carità, sempre provvisorio e storicamente determinato) con cui misurare giusto e ingiusto, ragione e follia, e liberare così uno spazio di passione (e quindi azione) politica.

Eppure dovremmo ancora essere capaci di guardare (e non solo vedere) le immagini. Fermiamoci, fissiamole attentamente, non lasciamoci sopraffare, come temeva Eliot, dalla troppa realtà, malati piuttosto come siamo di irrealtà: il pianista Ayham Ahmad, che fino all’ultimo tenacemente suona il suo strumento in mezzo alle rovine del campo palestinese di Yarmouk; il piccolo Aylan, deposto ormai senza vita dalle onde sulla spiaggia di Bodrum; Petra Lazlo, che sgambetta il profugo in fuga col figlioletto in braccio; la giovane coppia con bimbo, a terra tra i binari di una ferrovia al confine ungherese, circondata da poliziotti chinati su di loro per strapparli dalle traversine cui si aggrappano urlando, cercando di proteggere almeno il figlio; il campo di Idomeni, ridotto dalle piogge come una palude della Louisiana, ma anziché gli alligatori ci sono bambini nel fango e tende di fortuna; le file di vecchi con lo sguardo smarrito (viene in mente la fuga di Enea con Anchise sulle spalle e dietro di lui Troia in fiamme), vaganti da un confine all’altro, rifiutati e respinti da soldati in assetto di guerra… analizziamole allora, queste foto, confrontiamole con quelle delle persecuzioni naziste, le file timorose e umiliate con la stella gialla cucita sulla giacca, il bambino che esce dal ghetto di Praga, le braccia alzate dietro la testa, i soldati ridenti intorno… per quanto cerchiamo, non troveremo differenze significative. E se ci saranno posteri, anche noi saremo in blocco giudicati consenzienti e complici, allo stesso modo in cui la mia generazione giudicava il popolo tedesco: i posteri non fanno distinzioni tra buoni e cattivi.

Ecco allora, di nuovo, la vergogna. È personale, ma dovrebbe essere anche collettiva. Il mondo intero è un campo pieno di bombe a orologeria e qui da noi siamo incapaci di eleggere i candidati alle amministrative. Negli Stati Uniti, che son pur sempre la potenza di riferimento, si rischia di avere tra un anno uno psicopatico come presidente e in Europa i partiti che fanno riferimento alla sinistra si apprestano a votare in gran segreto il TTIP. Nella vicinissima Libia si preannuncia una guerra da Comma 22, con la ministra Pinotti che sembra non sapere quello che dice e parla di «possibili interventi di legittima difesa (?) mirati» e noi non riusciamo a levare alto il nostro rifiuto, soltanto a far passare per vittima un ridicolo professore di Bologna, innocuo come un nanetto da giardino.

Siamo bravissimi a ripetere senza fine lucide analisi (ma sarebbe sufficiente anche solo l’ultimo libro di Luciano Gallino) e maestri nel progettare soluzioni a lunga gittata: bastasse la teoria, la sinistra costituzionale e democratica governerebbe il mondo.
Ma la ragione senza il sentimento può poco, ed è proprio quest’ultimo, il cuore, che ci manca. Diceva il dostoevskijano uomo del sottosuolo: «Vedete: la ragione, signori, è una bella cosa, non se ne discute, ma la ragione è soltanto ragione e soddisfa soltanto la facoltà raziocinativa dell’uomo, laddove il volere è manifestazione di tutta la vita, ossia di tutta la vita dell’uomo, ragione e sue prurigini comprese. E sebbene la nostra vita, in tale manifestazione, risulti spesso essere molto misera cosa, ma è però sempre la vita, e non già solamente un’estrazione di radice quadrata. Che cosa sa la ragione? La ragione sa soltanto quello che le è riuscito di conoscere (e magari certe cose non le conoscerà mai ), mentre la natura umana agisce tutta intera».
Non è irrazionalismo, è realismo. È lasciarsi toccare nel profondo della nostra umanità distrutta nella mutazione di cui parla Giacché, cercare di recuperare le ragioni che dovrebbero nutrire la nostra capacità di reagire, al di là di parole d’ordine ormai usurate dalla consuetudine, dalle ripetute sconfitte, dai personalismi di chi le sventola come scalpi. Sappiamo che cosa andrebbe fatto ma non ne abbiamo la forza: è solo un problema di numeri? Un detto della tradizione rabbinica molto caro a Primo Levi recita: «Se non ora, quando? Se non qui, dove? Se non io, chi»?