«I confini sono solo cicatrici sul volto della terra» se c’è un verso che condensa tutto il nuovo disco dei Gogol Bordello “Pura Vida Conspiracy” è proprio questo, tratto dal brano “We rise again”. Ma sono parole che riassumo l’intera vita di Eugene Hütz, leader della band, zingaro di nascita e di vocazione. Antenati rom e russi, natali e infanzia ucraini ai tempi dell’URSS, fuggiasco per scampare alla radiazioni di Chernobyl, adolescenza da profugo e rifugiato in Occidente e anche in Italia, trapiantato negli Stati Uniti. E’ arrivato poi il rock, il successo e anche il cinema, ma non sono stati degli approdi, solo nuovi punti di partenza. Il lungo viaggio è proseguito. Hütz è sulle scene in giro per il pianeta con i Gogol Bordello dal 1999. Negli ultimi anni si è innamorato del Brasile e quando può vive a Rio de Janeiro. Ora è a New York con la sua band dove sta ultimando i preparativi per imbarcarsi in un nuovo tour europeo: Olanda, Germania, Francia, Svizzera e anche Italia (il 27 novembre sarà all’Alcatraz di Milano, il 29 all’Orion di Roma e il 30 all’Estragon di Bologna). Poi ritornerà negli USA e l’anno prossimo sono già fissate date in Russia e Colombia.

Pura Vida Conspiracy”, il sesto album in studio dei Gogol Bordello, sembra essere ispirato da un forte senso di comunità, di positività e di voglia di vivere.

«E’ lo spirito di questo disco. E’ la lunga strada che abbiamo percorso come band che ci ha fatti arrivare a questa condizione. Non tutti i gruppi arrivano a questo punto. Molti si sciolgono, si bruciano per gli sconvolgimenti dovuti all’ego degli artisti. Solo alcune band riescono a oltrepassare questi limiti e fare musica più sentita e matura. Siamo in tanti sul palco, in otto, e ci sono stati nel corso del tempo diversi cambi. E’ inevitabile, ma il cuore della band è lo stesso da tanti anni».

Siete ormai una band globale, dopo le date europee andrete in Colombia e in Russia.

«Per l’America latina si tratta di un ritorno visto che abbiamo fatto un tour il mese scorso. La Russia, ironicamente, è stato l’ultimo paese a scoprirci. Ero un po’ sorpreso da questo, ma un giorno stavo bevendo insieme a Emir Kusturica e mi ha detto: “A me non sorprende per nulla. Pensi che mi conoscessero in patria prima che vincessi il festival di Cannes?”».

Hai vissuto in Italia e qui i Gogol Bordello sono sempre stati seguiti con grande passione. Senti un legame speciale?

«Il legame con l’Italia inizia quando ero in Ucraina. C’erano molti musicisti italiani che venivano a suonare da noi. Era uno dei pochi paesi con cui ci fosse un forte scambio culturale. Questo perché l’Italia era un paese con un fortissimo partito comunista ed era vista come una nazione occidentale non del tutto capitalista. Non eravate proprio tipi da Nato. La musica italiana era dappertutto. Non che io l’ascoltassi religiosamente, ero più per altri generi, ma divenne per me qualcosa con cui confrontarsi e di cui prendersi gioco. E la sua qualità melodica è sempre stata parte del nostro paesaggio».

Nel tuo album c’è anche una canzone con riferimenti italiani intitolata “Malandrino”.

«Sì, c’è un gioco di parole tra “malandro”, un termine che significa delinquente con cui mi hanno chiamato non appena arrivai in Brasile, e Truffaldino, il personaggio di Goldoni. La canzone nacque proprio in Italia, stavo cantando quella melodia a un gruppo di ragazze dopo uno show e giocai con le parole. Mi venne in mente Truffaldino e creai così il ritornello. Dalla reazione delle ragazze capii di avere una hit!».

Hai viaggiato tutta la tua vita. Il Brasile è da qualche anno la tua residenza abituale. E’ il posto in cui potresti anche sistemarti definitivamente?

«Sì. E’ un paese di cui non ti stanchi mai. Ho passato molto tempo anche in Argentina, a Buenos Aires, ma ogni volta che torno in Brasile penso “this is fucking great!”. Estendo il visto e rimango. Ha dato una dimensione diversa alla mia vita. Penso che noi tutti dobbiamo costruire il nostro personale mosaico di culture».

Il concetto di confine non ti appartiene.

«I confini non esistono. E’ come disegnare con un gesso sulla lavagna. E’ un tratto che con uno straccio si può cancellare e viene dimenticato. Il pianeta è un organismo come un corpo umano, c’è il cuore, il fegato, i muscoli. Il fegato non pensa certo di invadere il cuore o i polmoni di assediare il cervello. Tutti funzionano insieme. E’ per questo che penso che l’immigrazione sia importante. Non tutte le persone sono destinate a diventare nomadi, ma i migranti sono come il sangue che circola, che nutre e tiene in vita tutti gli organi. La migrazione è una funzione vitale. E’ anche un processo, lento ma costante e inevitabile, che prepara la gente a capire che siamo tutti parte di una grande famiglia».

Il vostro album d’esordio si chiamava “Gipsy Punk”, uno slogan che ha finito per definire la vostra musica e un genere. Ma oggi sembra essere un’etichetta che vi va stretta.

«E’ sempre stata una definizione sfruttata all’eccesso. Era solo il titolo di un album, nato da una battuta che fece un mio amico rom dopo un nostro concerto. Disse: “Hei, ma questo è gipsy punk!”. E noi: “E’ un ottimo titolo per un album”. La nostra musica oggi è solo musica dei Gogol Bordello. Sono canzoni che ho scritto io, non appartengono a nessuna tradizione in particolare e solo alcune conservano un’ispirazione zigana. E’ stato bello che sia nata una scena, perché è bello essere stati un’ispirazione, ma ormai fa parte del passato».

Quale sono le esperienze più strane che hai vissuto in tour?

«Ci siamo esibiti in Giappone durante un terremoto. Abbiamo suonato in Russia in una base dell’aviazione deserta con un’atmosfera inquietante. Ma la cosa più strana mi accadde a San Francisco. Prima di un concerto arrivò una coppia e la donna disse “Mio marito è morto la scorsa settimana”. Il marito si fece avanti e disse di avere avuto un infarto e di essersi visto fuori dal suo corpo. Osservando la scena aveva pensato: “Ho vissuto bene, mi sono laureato, ho fatto tante cose,… però ho i biglietti del concerto dei Gogol Bordello. Non posso morire!”. Si era ripreso ed era lì quella sera. Ho detto: “Wow! Spero proprio che tu possa goderti lo show. Bentornato!”. Le cose più strane non accadono solo in posti esotici».

In un’intervista (vedi Alias dell’11/2/2012), Henry Rollins ha detto che se le zone di crisi venissero bombardate con la musica dei Ramones il mondo sarebbe un posto migliore. Che ne pensi?

«Conosco Henry e condivido assolutamente. Non solo per un concetto astratto che il rock porta all’amore universale. Il rock esprime l’aggressività in una forma positiva, inverte le negatività, aumenta la tua vitalità. E’ come se fosse un’arte marziale musicale. E’ esattamente come vedo la nostra musica: MMMA, Mixed Martial Musical Art. Alcune arti marziali non hanno neppure il concetto di attacco, come l’Aikido. Non sopprimi il tuo avversario, lo disinneschi. E’ quello che ho scritto in una canzone del nostro album “The other side of Rainbow”: “Quando la neve è troppo pesante gli alberi si piegano e la lasciano cadere./ Quante ossa rotte ci vogliono perché si possa imparare?”».

Hai recitato nei film “Ogni cosa è illuminata” e “Sacro e Profano” (il debutto alla regia di Madonna). Hai altri progetti in corso?

«Ho appena rifiutato una nuova proposta per mancanza di tempo. Mi è piaciuto recitare, ma mi piacerebbe di più recitare in teatro. Girare un film non è un’esperienza divertente. Proprio no. Non c’è la gioia dell’interazione che hai con la musica oppure con il teatro. Il cinema è un lavoro sporadico, frammentario. Mi immagino magari un giorno più come regista che come attore, ma è qualcosa che vedo più in là. Perché in fondo, alla fine della giornata, preferisco sempre la musica».