Se, per esercizio retorico, esercitando la facoltà dei tropi, metafore, metonimie ecc., cioè il transito naturale da un significato all’altro, da un contesto all’altro, favorito dal lessico, dal perno del significante; se, per questa via, si leggesse il titolo «Fuorinorma» alla luce di teorie freudiane in cui appunto il concetto di norma è centrale ed è accentrante, centripeto, fagocitante le libertà immaginative; si direbbe che il festival ideato da Adriano Aprà, sostenuto tra l’altro dal volume omonimo che ne rivela i presupposti teorici, si protende verso una sorta di subconscio del cinema italiano, un Es cinematografico che emerge per lo più sotto forma di ellissi, reminiscenze d’incerta provenienza, avvisaglie di forme. Non forme date, già fatte, formazioni atte a condurre la narrazione, ma cose sfatte, balbe, che si definiscono al di là dei loro contorni, delle loro sagome: cose che allora sono fuori di sé e sono parte di un cinema in continuo divenire, un cinema del divenire.

NEGLI ANNI, grumi gravidi di materiale audio-video, in costante fermentazione proprio delle fibre, delle singole particelle di cui sono fatte, sfatte le immagini, come Ananke di Claudio Romano, per citarne i casi forse più fulgidi, o ’77 No Commercial Use di Luis Fulvio o Il Negozio di Pasquale Misuraca ecc.: un cinema metafisico nel senso che si ripiega su di sé e, per esistere, attinge al sostrato linguistico di cui è fatto, alla congerie ctonia di segni che giacciono nel sottofondo, nel subconscio iconografico.
Anche quest’anno programma variegato di proiezioni e incontri che si chiude oggi allo Spazio Scena a Trastevere con un «simposio» sul rapporto tra critica e cinema indipendente, un rapporto, tra le ipotesi che questo festival può suggerire, necessariamente fondato sul travaso reciproco, su un’osmosi che porti questo cinema sperimentale a invocare l’intervento critico perché ne faccia risaltare i significati reconditi, stratificati, magari, nel migliore dei casi, inventandoli, partendo dall’ambiguo canovaccio costituito dal film; e la critica a inserirsi negli interstizi delle immagini da dove, al di là del concetto, caricarsi di materiale visuale, farsi carico del fatto che le immagini possono essere proiettate, veicolate dalla lingua. È come dire che il cinema, visuale per propria natura, chiede concetto alla critica per poter essere pienamente cioè essere in quella passeggera declinazione delle proprie immagini, che si fanno, disfanno all’infinito; e la critica smorza la propria inclinazione al logos impregnandosi di sostanza eidetica, di cose-icone, luce, alla fine, di quel lievito luminoso che può essere alla base anche del sorgere delle parole. E allora in un film come Le Eumenidi di Gipo Fasano, visto ieri, ci si deve districare tra materiali eterogenei e accettare la costante precarietà di questo assetto: videogioco, teatro, musica, scandiscono la dimensione cinematografica come intersezione di piani di esperienza, bilico costante tra queste esperienze. Oppure Sirio di Davide Palella proiettato martedì, in cui lo sguardo del critico, lo sguardo dello spettatore che non può non interagire con l’opera, si inserisce nelle commessure, nelle intercapedini di questo spazio cinematografico fatto di atti e sostanze che si protraggono nell’oltranza del piano-sequenza, si prendono il tempo per saturarsi di grana cinematografica, un bianco e nero spettrale, livido; e da lì aderisce, lo sguardo, alle cose e agli eventi.

ENTRA, l’occhio, attraverso aperture di grotte o di ruderi per poi riconoscere le cose deposte e così diventare la vampa del fuoco che vi crepita, o la sostanza affannata del sonno, oppure l’ossessione di scalfire il tronco d’albero, simile a quella del Naderi di Monte: ossessione della ripetizione – il gesto contro la materia, materia filmica innanzitutto – anzi ossessione in quanto ripetizione smisurata. Anche il nero, il nero vuoto dello stacco di ripresa, si dilata e prende forma: passa da segno linguistico, la normale cesura del piano, a materia della narrazione, buiore che si diffonde nella grotta: materia oscura.