Anche gli accumulatori seriali – anzi proprio loro – devono fare i conti con il concetto di fuori posto. L’ordine è per vite sonnacchiose, non certo per chi si arrovella nello stratificare l’esistenza, sparpagliando fantasmi affettivi. A volte, è un oggetto che muta destinazione d’uso e diventa irriconoscibile per coloro che risultano estranei all’ossessione primaria; altre, un ricordo che svapora e cambia contorni; altre ancora, una scritta sbagliata su un barattolo. Eppure quell’errore ortografico accende malinconiche madeleine proustiane in chi legge, riconquistando il presente perduto in un fulmineo istante.
Il libro di Silvia Palombi Fuori posto – un diario, un memoir, un reportage intimo, qui le forme narrative si intrecciano come in un tappeto antico – ha una trama che si sfila e si ricuce disseminando indizi. È una geografia sentimentale ingarbugliata di cui, però, non serve cercare il bandolo. Edito da A & B, in una settantina di pagine riavvolge il nastro di una amicizia amorosa fra due uomini, entrambi già un po’ «fuori posto» fin dalla nascita quando vennero scelti i loro nomi: Caterino e Olindo (la voce narrante).

IL ROMANZO SI APRE su un incidente che coglie impreparato Caterino e lo rende dipendente dagli altri che accorrono in suo soccorso. Questo affidarsi del corpo (e non solo) finirà per creare legami solidissimi riuscendo a scalfire il muro che chi vive da solo spesso costruisce su incallite e rassicuranti abitudini. La quotidianità dei due amici che si innamorano procede senza sbalzi e sussulti, nutrendosi di lillipuziane manie (imparate, nel caso di Olindo, come quel conservare i tappi delle grandi occasioni di cui accetta l’eredità tanto da continuare lui, volontariamente, la vecchia tradizione) e traendo linfa da un «lessico famigliare» strampalato che appartiene alle due famiglie di origine e che, nel racconto di uno all’altro, nel concedersi senza remore finisce per mescolarsi, fondando un nuovo alfabeto condiviso.

IL «FUORI POSTO» è così quel luogo mobile delle cose che permette di «non rammollirsi», di stare all’erta, di indovinare oggetti e persone senza abbandonarsi alla pigrizia del già noto. Del resto, è un’esperienza che la stessa autrice ha vissuto quando (lo rivela nella sua «piccola prefazione a posteriori») ha deciso di saltare lo steccato, dirigendosi spedita oltre il bozzolo protettivo. Ha traslocato non solo di casa ma di città, accettando di «abitare» con un’altra se stessa. In attesa dei nuovi automatismi che si genereranno, ma anche libera di non averne più.