Il «pieno medioevo» è un concetto storiografico sorto in ambito tedesco e rimarca la centralità di un «gruppo di secoli» (X, XI e XII) in cui avviene un profondo cambiamento nella facies delle corporazioni europee di ogni ordine e grado. Arteria, punto di snodo tra «alto» e «basso medioevo» nel momento in cui artisticamente si avvicendano romanico e gotico, l’aggettivo «pieno» coincide con «centrale» o «classico»: evidenzia dunque quel culmine negli organismi politici e culturali che è impossibile eludere in sede di analisi storica (un po’ come l’Atene del V secolo a. C., per intenderci). Tra i diversi ingranaggi in metamorfosi, quali implicazioni ebbe il monachesimo nella società del tempo? Cosa accadde nel vecchio continente con il passaggio dall’assetto carolingio alla «poliliticità» – definizione di Ovidio Capitani –, ossia alla presenza di molti livelli istituzionali, tipica dei comuni? E che ruolo ha giocato l’ordine monastico nella rivitalizzazione di una civiltà indirizzata al dinamismo universitario e mercantile?
La risposta è semplice: le abbazie benedettine non soltanto furono all’avanguardia, ma trovarono soluzioni (geniali) ai problemi e alle variazioni che via via si andavano creando. Lo dimostra I castelli della preghiera Il monachesimo nel pieno medioevo (secoli X-XII) a cura di Glauco Maria Cantarella (Carocci editore «Frecce», pp. 276, € 26,00), volume collettaneo suddiviso in sette capitoli che racconta analiticamente lo sviluppo delle comunità germogliate dalla radice del santo di Norcia. Come scrive Cantarella nella nota introduttiva, il testo – allestito da una generazione di studiosi che lavora da decenni a stretto contatto – si occupa di esaminare «il monachesimo benedettino classico (Cluny, Montecassino); le esperienze innovative dell’XI secolo (san Romualdo, san Pier Damiani, gli Avellaniti, i Camaldolesi, i Vallombrosani); la travolgente restaurazione/innovazione del monachesimo cistercense; la rappresentazione degli spazi vitali dei monaci».
Si parte da Cluny, nel saggio a firma dello stesso Cantarella, con i primi abilissimi abati: Bernone, Odone il teorico musicale («la sua musica corale era costruita in modo da espellere “dai cuori degli ascoltatori qualunque desiderio diabolico”»), Maiolo e Odilone che si dedicarono alle riforme del convento cluniacense e all’«invenzione della verginità istituzionale» («non è da intendere come opposizione fra psyché e physis, ma semmai come una sottolineatura della physis, della corporeità: il monaco è tenuto al rispetto del proprio corpo e di quelli degli altri»). In quegli anni l’inventio è di rigore – ad esempio, la festa di commemorazione dei defunti ideata da Odilone nel 998 – ma non sono da meno i pericoli, le rivalità, il ridimensionamento. Enrico Veneziani entra nel merito delle vicende attorno al cenobio di Montecassino, alla luce delle relazioni con il papato: la collaborazione di Oderisio I, le incrinature con l’abbaziato di Ottone, le ingerenze, il vento di bonaccia, lo «scontro frontale» e lo scisma cassinese, le ritrattazioni, i Normanni.
Le peripezie di Fonte Avellana con il ruolo decisivo di Romualdo e Pier Damiani sono invece ricostruite da Umberto Longo. In particolare, la corrente trainata dai due santi appare come «una delle esperienze che hanno caratterizzato il mondo monastico italico dell’XI secolo»: il «sogno panmonastico» di Romualdo e l’eremitismo di Pier Damiani si sposano in favore di un’«istituzionalizzazione dell’intuizione». Così Camaldolesi e Avellaniti, ai quali si uniranno Vallombrosiani e Cistercensi nei capitoli redatti da Nicolangelo D’Acunto, Guido Cariboni e Francesco Renzi, si avviano a nuove forme di congregazioni che raffinano le «strutture insediative», i «funzionamenti istituzionali» tra radicalismo e incertezze. Emerge un quadro estremamente intricato ma al contempo esaltante: questi monaci, vicini e distanti dal contemptus mundi, torcono la vita per il collo, tra canti e orazioni hanno il tempo di mettersi all’opera come politici, poeti, gualchierai, speziali, agricoltori. Chi più ne ha più ne metta! Colpisce l’ardimento mistico-operaio dei Cistercensi guidati dal doctor marianus et mellifluus Bernardo di Clairvaux, fustigatore dell’opulenza, che li ispira a essere quasi dostoevskianamente «fuori dal mondo, nel cuore del mondo». Persino nelle arti: come scrive Giorgio Milanesi nel capitolo conclusivo, «ben oltre la metà delle architetture, delle pitture e delle sculture di epoca pienamente medievale appartengono a contesti monastici». E ciò è reso lampante dalla crisi delle immagini alla loro accettazione («l’elaborazione teologica del rapporto tra visibile e invisibile»), dalla ricerca di un equilibrio spaziale fino all’«abate costruttore», Guglielmo da Volpiano, per arrivare a Sugerio e alla diffusione del gotico.
La chiara atmosfera claustrale – simile al poema irlandese Buile Suibhne tradotto da Seamus Heaney, Sweeney Astray – e la creatività poietica, a partire dal roboante sistema onomastico, che si respirano nel libro, ci spingono indietro nel fulgore della verità storica verso un’età d’ingegnose fioriture, di deferente fervore, età originalissima e ancora capace di destare la nostra ammirazione.