I provvedimenti del governo sui temi del lavoro fanno tornare sotto i riflettori i problemi dell’economia reale. Dall’esplosione della crisi la finanza ha sempre avuto la precedenza, anche se si è continuato a colpire il lavoro con provvedimenti come quelli della Fornero. Oggi Renzi sembra prenderla dal lato della domanda e non più dell’offerta, ma in realtà è sempre sul versante dell’offerta che finisce per tornare.

I conti pubblici continuano a peggiorare, ma non sono più un’emergenza immediata dato che le politiche monetarie globali ultra-espansive hanno consentito di rinviare alcuni problemi di tenuta. Ciò che ora preoccupa è che la messa in sicurezza momentanea della finanza privata e pubblica non sta consentendo di far ripartire l’economia nel suo complesso.

Permangono problemi di credito, deflazione, consumi e investimenti. Insomma siamo finiti in una fase di stagnazione da cui non si intravedono vie d’uscita. L’attenzione necessariamente ricade sui fondamentali dell’economia, in quanto il mercato senza crescita non riesce a tornare sostenibile. Dopo che l’esperimento degli 80 euro si è rivelato largamente inadeguato si prova a insistere ancora sul lavoro. I provvedimenti sui contratti a tutele crescenti, che ridimensionano ulteriormente l’articolo 18, non hanno alcuna sostanziale contropartita sulla riduzione delle tipologie contrattuali. Cioè si riducono tutele e forza contrattuale delle figure che ancora ne possedevano la parvenza senza neppure smantellare quel pulviscolo di contratti che ha contribuito a destrutturare il mondo del lavoro negli ultimi decenni. La teoria sottesa è «meno garanzie uguale più impieghi».

Come se non bastasse quanto accaduto perlomeno dal pacchetto Treu del 1997. Ma evidentemente non basta. Il governo propone l’utilizzo immediato del Tfr. Una scelta ben diversa dagli 80 euro, dato che in questo caso si parla di risorse che sono già del lavoro, una sorta di salario differito. Il rischio è che aumenti il carico fiscale sulla quota di Tfr messa in busta paga e che si produca l’effetto di quietare i dipendenti nelle loro rivendicazioni depotenziando la richiesta di rinnovi contrattuali che ripartiscono la ricchezza prodotta nell’impresa.

Certo con tale provvedimento Confindustria lamenta un aggravio delle finanze dell’impresa, ma tale problema verrà ridimensionato con una partita di giro tra Bce, banche e imprese, attraverso finanziamenti a tassi quasi nulli predisposti per dare ossigeno all’economia.

Una politica industriale e salariale creativa che con il supporto della finanza aggira gli attuali problemi e che continuerà a pesare in particolare sul mondo del lavoro. Salvo poi scoprire che non sarà sufficiente.

I segnali ci sono tutti. L’economia non riparte, infatti, non perché esistano troppe tutele, ma a causa della ritirata degli investimenti, il sistema bancario non eroga credito data la modesta domanda, i finanziamenti della Bce si rivelano superiori alle capacità di assorbimento del sistema, l’instabilità economica di milioni di cittadini spinge a risparmiare e a consumare diversamente.

Il problema non è l’offerta, ma neppure la domanda. A questo punto occorrerebbe una diversa domanda, che non risponderebbe ai dettami dominanti, ma potrebbe essere più salutare. C’è bisogno di riprendere in mano le sorti dell’economia, sganciarsi dal pilota automatico del mercato, pensare a un piano di investimenti pubblici al fine di rifondare infrastrutture, assetti idrogeologici, produzioni e distribuzioni eco-sostenibili.

Certamente si porrà un problema di efficienza e controllo, che le vecchie pianificazioni o programmazioni non hanno risolto, ma considerato il grado di disfunzionalità raggiunto dall’attuale economia non si può pensare a nuovi esperimenti all’altezza delle sfide contemporanee?