Ieri a Tel Aviv 250mila persone arrivate da mezzo mondo, in abiti colorati e con le orecchie da coniglietto, festeggiavano il ventesimo Gay Pride di Israele, uno dei principali eventi globali Lgbtiq e panno con cui spolverare e far brillare l’immagine «tollerante» dello Stato ebraico.

Dalle spiagge della città è difficile che abbiano visto i quartieri arabi di Jaffa svuotati nel 1948. Di certo non hanno visto Gaza: nelle stesse ore, 70 km a sud dal corteo arcobaleno, ai palestinesi veniva mostrata l’altra faccia di Israele. Quattro uccisi, oltre 600 feriti per proiettili veri, candelotti lacrimogeni e gas, che si aggiungono al devastante bilancio degli ultimi due mesi con il suo carico di 121 morti e oltre 13mila feriti.

Nell’ultimo venerdì di Ramadan è continuata la Grande Marcia del ritorno, iniziata il 30 marzo: a tre giorni dal 5 giugno, anniversario della Naksa del 1967, si celebrava il Jerusalem Day, commemorazione opposta a quella israeliana che celebra la «riunificazione» della Città Santa, ovvero l’occupazione (mai riconosciuta a livello internazionale) di Gerusalemme est. Da Teheran a Baghdad, da Damasco a Islamabad decine di migliaia di persone hanno marciato per ricordare lo status e la storia di Gerusalemme.

Nella Striscia, per la «Marcia del Milione», 10mila palestinesi si sono ripresentati nei campi popolari allestiti in queste dieci settimane lungo le linee di demarcazione con Israele. Tra i manifestanti anche la madre di Razan al-Najjar, la giovane paramedica uccisa una settimana fa da un cecchino israeliano. Indossava l’uniforme bianca della figlia.

Ma anche ieri è proseguito il tiro al piccione contro manifestanti, giornalisti e infermieri: il bilancio finale è di quattro uccisi (a Jabaliya Nidal Abu Darabeh di 26 anni, a Khan Younis Ziad Abdalla al-Bureim e Haitham Mohammed al-Jamal di 15 anni, a est di Gaza city il 29enne Yusuf al-Fasih) e 618 feriti di cui 120 da arma da fuoco.

Tra loro due medici, cinque giornalisti (identificati un cameraman di al-Aqsa tv colpito alla schiena da un candelotto e il fotografo dell’Afp Mohammed al-Baba, ferito al piede da una pallottola) e 48 bambini. Un peso insostenibile per un sistema sanitario al collasso, già schiacciato dall’assedio che impedisce il rifornimento di medicine ed strumentazioni e che sopravvive con poche ore di elettricità al giorno nella carenza cronica di carburante per i generatori.

Una strage annunciata dai vertici militari e governativi israeliani che già da giovedì – tramite la voce anonima di un ufficiale del Comando meridionale raccolta dal Times of Israel – stimava la possibile conta dei morti: «Ce ne saranno 40».

Nel pomeriggio su Twitter l’esercito dava conto dell’invio di rinforzi «per proteggere i civili israeliani e le infrastrutture» e pubblicava le foto degli aquiloni lanciati dalla Striscia, la più recente forma di protesta palestinese, che volano al di là del «confine» mentre a terra i copertoni dati alle fiamme provano da settimane a coprire la visuale dei tiratori scelti.
Secondo l’esercito, strumenti per appiccare incendi, sebbene il vero incendio si sia sviluppato ieri mattina: un drone israeliano ha dato fuoco a tende dell’accampamento allestito a sud, a Khan Younis.

La marcia di ieri era stata preceduta, giovedì, da un lungo articolo su Middle East Eye del capo politico di Hamas, Ismail Haniyeh, ieri presente nell’accampamento di Khan Younis, tra i più colpiti dalla repressione israeliana. Dopo aver ricordato risoluzioni Onu e condizioni di vita, terribili, in cui versano due milioni di persone, ha chiesto la fine immediata dell’assedio: «Continueremo a bussare alle porte di questa enorme prigione e alla fine ne faremo cadere i muri. Siamo un popolo che ama la vita. Creare morte e guerra non è il nostro hobby. Se saremo in grado di ottenere il nostro diritto a libertà, indipendenza e a una vita dignitosa pacificamente, questa sarà la nostra prima opzione. Altrimenti è nostro diritto resistere all’occupazione con ogni mezzo, compresa la resistenza armata, diritto legittimato e garantito dalla legge internazionale».

Ma la legalità internazionale è da tempo calpestata. Forte delle favorevoli condizioni esterne, Israele prosegue nella sua violazione. Ieri l’ultimo schiaffo: il premier Netanyahu ha fatto sapere di non voler incontrare Federica Mogherini, alto rappresentante Ue agli affari esteri, che domani avrebbe dovuto presenziare al forum dell’American Jewish Committee a Gerusalemme. Il motivo: «Le sue posizioni sono molto ostili verso Israele». Mogherini ha cancellato la visita.