Marilynne Robinson è nata nel 1943 a Sandpoint (ca. 7000 abitanti nel 2010) nell’Idaho, non in Iowa, come farebbe pensare l’ambientazione della trilogia di Gilead che l’ha resa d’improvviso celebre, al punto da concedersi, lei, recentemente a un’intervista richiestale da Obama, il quale nel 2012 l’aveva già premiata con la National Humanities Medal. Qualche anno fa, sul punto di partire per un evento culturale organizzato a Hailey, Idaho, mi fu detto da qualcuno: «Perché l’Idaho? Atterrerai su un campo di patate»: l’unica prospettiva era ritrovarsi in una specie di nowhere senza coordinate precise, un luogo che, dopo l’ottocentesca corsa all’argento, oggi può vantare solo patate come unica risorsa economica, se si escludono sparse sedi secondarie di società imprenditoriali e il turismo invernale o venatorio/piscatorio, per esempio a Sun Valley, dove trovò la morte Ernest Hemingway, vicinissimo a Hailey, luogo di nascita di Ezra Pound. Strani incroci del destino letterario nazionale.

Nonostante le poche altre risorse, evidentemente per Robinson ha significato molto essere nata fra quelle montagne (le Rocciose), intervallate da canyon e campi agricoli, un tempo governate dall’indomito Chief Joseph della tribù dei Nez Perce. Per di più, Sandpoint si trova in una regione molto a nord, verso il Canada, e presso l’unico lago di grande consistenza dello Stato. Deve aver significato molto per lei il suo isolato luogo di nascita, se ne fa lo sfondo magico e insieme ombroso – tenebroso, un po’ alla Fogazzaro – del suo primo romanzo Le cure domestiche (Housekeeping, 1980), vincitore del Pen/Hemingway Award, riproposto adesso nella stessa versione di Delfina Vezzoli (Einaudi, pp. 199, € 18,50), dopo un primo tentativo di lancio effettuato da Serra e Riva nel 1988, con il titolo Padrona di casa. Un buon intuito editoriale, allora, forse anche a seguito del bel film di Bill Forsyth, Una donna tutta particolare, messo in circuito quello stesso anno.

Il lago presso le cui rive Robinson è cresciuta è Lake Pend Oreille, il quinto per profondità della nazione, in un territorio abbastanza illeso nel rispecchiamento della sua antica fisionomia indiana. Ed è proprio un lago molto profondo a reggere il ruolo di protagonista paesaggistico della storia di Le cure domestiche. È lì che il dna della storia va cercato, lì nel profondo di quelle acque. Sembra giusto aggiungere, per ragioni di accidentale sintonia, che in quegli ultimi decenni del secolo scorso ci sono altri laghi a creare disturbanti vicende e grandi romanzi. Non si può non pensare, per esempio, all’altrettanto misterioso lago di Surfacing (1972, Tornare a galla, Serra e Riva, 1988), il romanzo più poetico e visionario di Margaret Atwood, e a quello del tenero e sconvolgente The Sweet Hereafter (1991, Il dolce domani, Einaudi, 1997) di Russell Banks, trasformato in film da Atom Egoyan nel 1997.

I laghi (inclusi i ponds come l’ombelicale Walden di H. D. Thoreau), così pastorali nell’economia del vissuto ecologico americano (come, appunto, per Thoreau, e per i weekend della buona borghesia di oggi), fanno, altrettanto spesso, anche molta paura. Sono infidi, traditori, insondabili, insidiosi nelle correnti catabasiche, vendicativi. Di solito, ingoiano per sempre le loro prede. Non fu così, per un diverso genere di vendetta (più puritana), in quel caposaldo del canone che è Una tragedia americana di Theodore Dreiser. Ma è proprio così, e per ben due volte, in Le cure domestiche.
Due bambine, Ruth e Lucille, senza padre (siamo più o meno negli anni cinquanta), vengono ricondotte dalla madre Helen da Seattle (città bellissima ma occultamente inquietante) alla casa della nonna, costruita tanto tempo prima dal nonno, Edmund Foster, perito in un incidente ferroviario, che provocò l’inabissamento di tutto il convoglio e dei suoi passeggeri dal ponte che le sovrasta nelle acque del lago su cui si affaccia l’immaginaria cittadina di Fingerbone (Idaho). Compiuto questo gesto di restituzione delle figlie alla terra delle origini che hanno nel sangue (e della tragedia famigliare e comunitaria), Helen riparte per annegarsi poco dopo con la macchina nelle acque del lago. Il gesto resta inspiegabile.
Ruth, la narratrice, apprende molte cose in questa sua iniziazione e nel processo amaro di formazione alla vita che segue e che, con la morte della nonna, passa di mano in mano nella cerchia di altri parenti, fino all’arrivo della zia Sylvie, la sorella di Helen, una donna (la donna tutta particolare) posseduta anch’essa da quella che in inglese si chiama wanderlust, molto frequente in America nei tempi primigeni della colonizzazione (errand into the wilderness, diceva Perry Miller, da rileggere, oggi, quell’errand, anche nel senso di errore).
Sylvie non riesce a sottrarsi all’impulso a «errare», a non fermarsi in nessun luogo, alla smania incorreggibile del movimento nello spazio, al rifiuto di una casa; la stessa smania da cui era preso il padre Edmund, di mestiere controllore di treni (vagoni che arrivano e vanno, passano, vanno continuamente altrove), il quale, per via del suo impulso all’erranza e dell’amore per le montagne, si era spinto, fondandovi una famiglia, fino a quel posto sperduto nell’Idaho, per essere destinato poi, quasi per nemesi, a fermarsi per sempre assieme alla corsa di un treno. Tutta la sua wanderlust si deposita nel lago.

Come il padre, Sylvie rifiuta anche lei il concetto di «casa» (un tema isotopico in Marilynne Robinson), e solo con difficoltà riesce a mantenere l’impegno di prendersi cura delle due ragazze, ma lo fa a suo modo, e con disastri domestici. Sylvie è una che non si toglie mai il cappotto, scompare per escursioni improvvise, percorre attonita e con sfida quel ponte sopra l’abisso malefico delle acque, freme di fronte al governo di una casa, alla preparazione dei pasti, agisce con la mente assente, sempre altrove, ingabbiata (o libera?) in quel cappotto dentro il quale ha cucito un biglietto da venti dollari, segno che la sua patologia dell’erranza è, lì con lei, sempre pronta a riattivarsi. Per quanto amorevole verso le nipoti, le due ragazze imparano presto che non potranno fidarsi di lei. Lucille abbandonerà lo strano ménage, rifugiandosi presso la sua maestra; Ruth invece è presto contaminata dalla stessa irrequietezza della zia.

Sul ponte dove non si osa Insieme danno fuoco alla casa («non potevamo lasciare quella casa, che era ingombra come un cervello, e lasciare che le sue reliquie venissero saccheggiate … Immaginiamo di sentirci piovere addosso la luce incorporea del Giudizio … Adesso eravamo davvero cacciate di casa e costrette a vagabondare») e di notte si avventurano in fuga sul ponte che nessuno osa attraversare: «Sentii – racconta Ruth – il ponte che si alzava, poi all’improvviso un vento acquoso mi soffiò su per le gambe gonfiandomi il cappotto e, più ancora, ci fu lo sciabordare luccicante dell’acqua, un suono silenzioso ma ampio … Trovarmi così all’improvviso al di sopra dell’acqua mi dava una sensazione di vertigine, una specie di euforia».

Il ponte scricchiola al loro passaggio, mentre Sylvie porta cucito sul bavero del cappotto un ritaglio di giornale che dice «Ancora due vittime del lago». In realtà, in quella traversata le due donne riescono a esorcizzare il vecchio Minotauro offeso da una qualche colpa dell’uomo bianco, e sull’altro lato del lago, aspettano il primo trenoper afferrarlo al volo. Ma il loro destino di «senza casa» è segnato per sempre. Marilynne Robinson continuerà a esplorare il concetto di «casa» per altre vie ermeneutiche. Gilead l’attende più di vent’anni dopo.