Si moltiplicano i funerali, man mano che nel Sahel l’opzione militare fa terra bruciata di tutto il resto. Ieri si sono svolti a Parigi quelli di stato riservati ai 13 soldati francesi morti in Mali, la settimana scorsa, nello scontro tra gli elicotteri con cui stavano dando la caccia a un cellula jihadista al confine tra Mali, Niger e Burkina Faso.

Vittime da aggiungere al conto del conflitto che vede scontrarsi sul terreno un arcipelago sempre più movimentato di gruppi armati islamisti e cinque eserciti regolari assemblati nella cosiddetta e ancora scarsamente finanziata forza multinazionale del G5 Sahel, cui oltre al Burkina contribuiscono Ciad, Mali, Mauritania e Niger. Stante l’energico e perdurante “supporto” delle truppe scelte francesi, i circa 5 mila effettivi impegnati nell’operazione Barkhane, che operano a protezione degli interessi economici di Parigi e con la benedizione politica dell’Europa, che spera di ricavarne un miglior controllo dei flussi migratori all’origine.

 

Mezzi francesi nel nord del Burkina Faso (Afp)

 

All’intensificarsi delle operazioni militari corrisponde invece un’escalation di attacchi jihadisti e, come è ovvio che sia,  una nuova ondata di persone in fuga. In Mali prevalgono ultimamente le azioni di guerriglia e i raid contro postazioni militari. In Burkina invece si moltiplicano le stragi di civili e gli obiettivi “religiosi” colpiti, con chiese e moschee indistintamente nel mirino.

Ieri anche qui è stato un giorno di lutto, dopo quanto avvenuto domenica in una chiesa protestante di Hantoukoura, nell’est del Paese, dove un commando ha sparato a freddo sui fedeli: tra le 15 vittime ci sono il pastore e un certo numero di bambini presenti alla funzione. Vittime diverse e diversamente soppesate da chi è chiamato a prendere le decisioni, malgrado siano il prodotto della stessa ostinata polarizzazione tra “guerra santa” e “anti-terrorismo”, che esclude ogni altra via.