Per mascherare il fallimento sulla Siria, la presidenza britannica del G8 ha insistito sul successo della lotta all’evasione fiscale, ma una notizia dalla Svizzera ha raffreddato gli entusiasmi a Lough Erne. Il Consiglio nazionale elvetico ha respinto ieri (126 voti contro 67 e 2 astensioni) la cosiddetta Lex Usa, cioè l’impegno ad esaminare con urgenza l’accordo sul fisco con Washington. Quindici banche svizzere sono sospettate di nascondere denaro sottratto al fisco e un ultimatum statunitense, che scade a fine giugno, minaccia di mettere in una lista nera cinque grandi istituzioni, contro le quali potrebbe venire aperta un’inchiesta giudiziaria, che potrebbe portare, a breve, a multe intorno agli 8-10 miliardi di dollari. Ma la Svizzera teme che un accordo di trasparenza fiscale con gli Usa apra la porta a richieste analoghe da parte degli europei, Francia, Germania, Italia in testa, che rischierebbero di pesare enormemente sui conti delle sue banche.

Il caso svizzero illustra bene le difficoltà che stanno dietro la cortina di fumo che Londra ha orchestrato per salvare il G8. Perfida, la ministra austriaca delle finanze Maria Fekter ha commentato da Vienna, altra capitale dell’opacità fiscale: «Mi viene da ridere a vedere George Osborne parlare di trasparenza sulle tasse». Osborne, cancelliere dello scacchiere, ha difeso il comunicato finale del G8, che promette di «combattere il flagello dell’evasione fiscale», smascherando le scatole cinesi dentro le quali si nasconde l’opacità delle proprietà. E ha affermato che contro l’evasione «sono stati fatti più passi nelle ultime 24 ore che negli ultimi 24 anni», mentre le ong che militano per una finanza trasparente hanno sottolineato che solo nei due giorni del G8 2,2 miliardi di dollari hanno trovato rifugio in un paradiso fiscale e che mille miliardi di dollari sfuggono al fisco ogni anno e il 70% avviene nei paesi del G8, a cominciare dal Delaware, stato Usa, e dalle Virgin Island, territorio d’oltremare britannico.

Sulla carta l’obiettivo è arrivare allo scambio automatico di informazioni fiscali nel mondo, mentre ora alcuni paesi accettano al massimo di fornirle su richiesta specifica di un altro paese. Il segretario generale dell’Ocse, anch’egli invitato ieri all’affollato pranzo con gli Otto (che in realtà sono nove, ma con dieci rappresentanti: Usa, Gran Bretagna, Germania, Francia, Italia, Canada, Giappone e Russia, a cui si aggiunge l’Unione europea con due esponenti, i presidenti di Commissione e Consiglio), a cui hanno partecipato anche Christine Lagarde dell’Fmi e Jim Yong Kim della banca Mondiale, promuove la sua “convenzione multilaterale”. Si tratta di una cooperazione per lo scambio di dati fiscali, già firmata da tutti quelli del G20 con la notevole eccezione della Cina. Il prossimo appuntamento per varare più concretamente questa convenzione è il G20 di San Pietroburgo a settembre, anche se Putin a Lough Erne ha ostentato una grande indifferenza per la questione fiscale. Il G5 (Francia, Germania, Gb, Spagna e Italia) ha promesso di varare un progetto pilota per gli scambi automatici di informazioni fiscali. Resta il fatto che, in realtà, la cosiddetta “ottimizzazione fiscale” perseguita dalle grandi multinazionali è perfettamente legale e permette a nomi come Google, Amazon o Starbucks di pagare percentuali infime (intorno al 2%). I paradisi fiscali tipo le Cayman possono anche firmare la convenzione, ma non hanno nulla da scambiare visto che non raccolgono dati fiscali poiché lì le tasse sulle società e sul reddito non esistono. Ma gli Otto Grandi promettono che in futuro sarà fatto il possibile per far pagare le tasse alle multinazionali in ogni paese dove fanno utili.

Francia, Usa e Giappone hanno fatto inserire nel comunicato finale un appello all’«urgenza» della promozione di «crescita e lavoro, in particolare per i giovani e i disoccupati di lungo periodo». Per l’Europa, in particolare, è scritto che «la sostenibilità di bilancio deve andare insieme a strategie di crescita ben definite». Evidentemente, non poteva mancare il richiamo alle «riforme strutturali». Tra gli accordi raggiunti al vertice, anche l’impegno dei paesi ricchi a non pagare riscatti per gli ostaggi.