Per il movimento «Priorità alla scuola» il temporaneo vuoto di governo è stata l’occasione per ripensare le bozze del «Recovery Fund» che sarà riscritto dal prossimo governo Draghi. L’idea centrale è questa: lo scopo della spesa sociale è migliorare l’istruzione, non implementare la logica di mercato sulla quale è basato anche il piano italiano. Andrea Fumagalli, docente di economia all’università di Pavia, ha partecipato alla definizione del piano alternativo presentato ieri sera. Con lui analizziamo anche la filosofia del piano «di ripresa e resilienza» e le prospettive che potrebbero aprirsi nei prossimi mesi.

L’economista Andrea Funagalli

«NELL’ULTIMA BOZZA del governo Conte bis le risorse per l’istruzione e la ricerca erano 28,5 miliardi, 11,77 sono dedicati alla voce “Dalla ricerca all’impresa” – argomenta Fumagalli- Predomina il rapporto tra la scuola e il lavoro e il potenziamento dell’insegnamento delle materie tecniche, le cosiddette “Stem”. Mancano interventi per stabilizzare il personale precario della scuola, una misura fondamentale per superare le “classi pollaio” e garantire la continuità didattica, un problema molto grave quest’anno. Priorità alla scuola propone di rovesciare l’impostazione del piano esistente, stanziare oltre 38 miliardi per 206 mila nuovi occupati. È un intervento che contrasta l’attuale divisione cognitiva del lavoro che determina nuove gerarchie sociali ed è un modo più efficace per affrontare il problema dell’abbandono scolastico che ora si vuole contrastare con “percorsi professionalizzanti”. Un approccio che mi sembra molto riduttivo».

Istruzione, formazione e ricerca rientrano nel «debito buono» definito da Mario Draghi. È «buono» perché vincola gran parte delle risorse all’impresa?
Sì, il «debito buono» prmette di gestire il servizio pubblico con i criteri di efficienza, profittabilità e ritorno tipici dell’impresa privata. Questi sono i criteri della filosofia del «New Public Management» che saranno applicati al piano italiano. Questo sistema è accompagnato dalla sussidiarietà in cui lo Stato interviene nei servizi sociali solo quando il mercato privato non ha interesse a garantirli. Se creo debito per finanziare questo sistema il debito è buono perché produce profitti nel medio termine. È come se fosse un investimento. In un sistema capitalistico non c’è accumulazione senza debito. E oggi il Welfare è sempre più al centro dell’accumulazione capitalistica.

Molti temono la cancellazione del «reddito di cittadinanza». In realtà il piano di rilancio europeo chiede l’istituzione delle politiche attive del lavoro. Che cosa sono?
Il «reddito di cittadinanza» non è un reddito di base e, in più, è già collegato a queste politiche dalla legge che lo ha istituito, anche se le norme non sono in vigore. A mio avviso, occorre separare il tema del reddito di base dal tema delle politiche attive, perché riguardano ambiti diversi. Il primo dovrebbe essere una misura incondizionata di Welfare, mentre il secondo ha a che fare con un scambio certificato di lavoro. Mettere insieme questi due temi è un’operazione ideologica e strumentale , finalizzata a potenziare questo sistema di «Workfare»: il «reddito» sarà erogato a condizione che il beneficiario accetti un patto formativo, segua il tutor-navigator e svolga un lavoro forzoso fino a 16 ore a settimana. Questo è un allargamento del sussidio di disoccupazione, esiste già in molti paesi Ue e non ha nulla a che fare con il reddito di base. Sarebbe auspicabile, visto lo spirito europeista di Draghi, che si creasse uno strumento unico europeo di sostegno al reddito, ampliando il progetto «Sure» sulla cassa integrazione. Sarebbe l’embrione di una futura politica fiscale e sociale comune in grado di creare un Welfare universale europeo adeguato alle nuove forme del lavoro e della vita.

Si sta votando a Bruxelles il regolamento del Recovery Fund che introduce condizionalità molto gravose. Quali sono?
Non sono vincoli sul debito, come erano le politiche di austerità, ma vincoli sulle modalità di spesa. Se i risultati della spesa sono congruenti con l’obiettivo stabilito dalla Commissione Ue allora le politiche saranno finanziate, altrimenti le tranche successive dei fondi saranno interrotte. Sono condizioni molto dure che non renderanno semplice la vita dei governi in un paese come l’Italia che ha una storica difficoltà a spendere i fondi europei.

Tutti i partiti che criticavano l’austerità oggi appoggiano il governo Draghi. Non si sono accorti di queste condizionalità?
È uno degli effetti della crisi del sovranismo e del populismo di destra, dopo la sconfitta di Trump, già vista dalla pochezza di proposte di fronte all’emergenza sanitaria. I Cinque Stelle lo fanno per opportunismo e per salvare il salvabile, per loro. La Lega lo fa in maniera strumentale perché spera in un ritorno elettorale. Salvini e Meloni sono portavoce di interessi padronali e corporativi, ma né l’uno né l’altra si sono resi conto che il nazionalismo economico non permette di fare molta strada. Il capitale approfitta di questa emergenza per fare i conti al suo interno e superare la fase del nazional-populismo. La formula vincente è quella delle piattaforme digitali e della finanziarizzazione.

Christine Lagarde ha rifiutato di nuovo la proposta della cancellazione del debito pubblico nelle mani della Bce. Un governo Draghi la chiederà?
Non credo, il debito è usato come una clava, oppure come una carota come in questo momento. La sua cancellazione è avvenuta in Europa solo per la Germania dopo la Seconda guerra mondiale. Oggi però c’è una grandissima differenza: viviamo in un’economia della pura moneta virtuale smaterializzata. L’annullamento del debito non avrebbe alcuna ripercussione economica e finanziaria. Si tratta di una goccia nel mare dei flussi di capitale internazionale che si muovono ogni giorno. È una questione puramente politica e simbolica. Non la si vuole affrontare per mantenere la spada di Damocle dell’obbligo di restituzione dei debiti una volta terminata l’emergenza sanitaria.

In che modo oggi si può creare una politica alternativa?
Ci sono due scenari. Uno corrisponde a un’alternativa istituzionale: creare una politica fiscale e un bilancio unico europeo finanziati tramite emissione di moneta e di titoli. Sarebbe la soluzione più ovvia e ragionevole, ma politicamente non è accettata dalle gerarchie europee. Poi c’è l’alternativa dei circuiti monetari dal basso usando monete complementari in grado di dare autonomia finanziaria ai processi di autodeterminazione delle persone e della cooperazione sociale. Questa strada sarebbe politicamente percorribile, non ci sono veti che la possano impedire. Ma è di difficile attuazione perché richiederebbe una mobilitazione sociale in grado di imporla. È un obiettivo che dovrebbero porsi i movimenti sociali anche se ora la situazione di emergenza sanitaria impone gravi limiti. Per evitare di cadere in una depressione collettiva sarebbe necessario mantenere viva e rafforzare la capacità di pensiero critico