Venezia. Il binomio Roiter/Venezia è una certezza, come il baccalà mantecato servito sulla polentina bianca o, meglio ancora, le gustosissime moéche fritte. Non solo perché il libro fotografico che ha consacrato in tutto il mondo Fulvio Roiter (Meolo, Venezia 1926-2016) è Essere Venezia (Grand Prix ai Rencontres de la Photographie d’Arles 1978) che, accompagnato dai testi del poeta Andrea Zanzotto, ha venduto quasi un milione di copie: è stato preceduto da Venise à fleur d’eau (pubblicato a Losanna nel ’54) e seguito da innumerevoli altri, tra cui Laguna di Venezia (1994) e Venezia in maschera (2003). Piuttosto, per quel suo sguardo puntato sulla città più fotogenica del globo che si è nutrito di una curiosità inarrestabile, frutto di passeggiate quotidiane che per oltre mezzo secolo hanno dato all’autore il dono di trasformare il momento in eternità. “Sono un turista qualsiasi”, affermava Roiter e con questo spirito sfidava l’ovvio, puntando l’obiettivo sulla bellezza delle pietre antiche, sui riflessi dell’acqua increspati e accarezzati dalla luce del tramonto.

A questo maestro del bianco e nero – “Da sempre considero il bianco e nero come il solo metro con cui giudicare un fotografo. Al colore si può arrivare per caso o per calcolo, al bianco e nero no.”, scriveva nel 1992 – altrettanto versatile nell’interpretazione di una sognante visione a colori, la Casa dei Tre Oci dedica la retrospettiva Fulvio Roiter. Fotografie 1948/2007 (fino al 26 agosto), promossa dalla Fondazione di Venezia in partenariato con la Città di Venezia e curata da Denis Curti con il contributo di Lou Embo, moglie del fotografo. Un percorso che attraverso una selezione di 200 scatti (prevalentemente vintage) ripercorre le tappe più significative del lavoro di Roiter. Tra le nove sezioni ci sono anche agli scatti dell’Umbria (Ombrie, Terre de Saint-François), che nel ’56 gli valsero il prestigioso Premio Nadar, e, naturalmente, viene esplorato lo stretto rapporto tra Roiter e il Circolo Fotografico La Gondola, tra i più attivi foto club italiani, fondato nel 1948 a Venezia da Gino Bolognini, Giorgio Bresciani, Paolo Monti e Luciano Scattola. Ma c’è anche altro e se i titoli di queste sezioni farebbero pensare agli aspetti più edulcorati di uno sguardo fiducioso e ottimista, di fatto stimolano anche il confronto con un approccio documentaristico di matrice sociale. E’ così quando il fotografo inquadra soggetti come i minatori nudi che trasportano lo zolfo all’interno di una miniera. Immagini fotografiche che non possono non lasciare distaccato né l’autore né l’osservatore. Quel reportage fu realizzato in Sicilia nel 1953 (anno che segnò il suo passaggio all’attività di professionista) durante un soggiorno nell’isola che egli fece con una manciata di spiccioli in tasca, due ruote a motore e altrettante macchine fotografiche al collo. Un po’ come quando, due anni dopo, attraversò l’Andalusia, innamorato delle poesie di Federico García Lorca. E’ lui stesso a raccontare in un’intervista video reperibile in rete un gustoso aneddoto sul suo modo di catturare il presente quando, in una lunga discesa verso la città di Siviglia, s’imbatté in un gruppo di gitani. A colpo d’occhio rimase affascinato da una coppia: lei incinta con un quel suo grande pancione e lui, in perfetto equilibrio compositivo, con un figlio piccolo nel marsupio poggiato sull’addome. Non poté quindi non tornare indietro. Per ben tre volte Roiter si fermò a fotografare, dando qualche pesatas ai gitani che ricambiavano il suo sguardo con altrettanta curiosità. Cominciò prima con il gruppo intero, non avendo il coraggio di isolare i soggetti che avevano catturato la sua attenzione. Quindi si rimise in moto ma, non contento, tornò indietro e continuò a fotografare. Il gruppo stavolta era più ristretto. Ancora insoddisfatto sapendo perfettamente qual era lo scatto a cui ambiva, tornò nuovamente indietro. I gitani avranno pure pensato che era un po’ loco, ma alla fine – tra una manciata di pesetas e l’altra – arrivò il momento di fotografare proprio quella coppia. Un suo finto colpo di tosse fu lo stratagemma per allentare la tensione e distrarre i due finché, come egli poteva vedere attraverso la lente del pozzetto, non si lasciarono raccontare in una naturalezza genuina.