Fino al 21 giugno è aperta in Firenze a Palazzo Strozzi la mostra Potere e pathos Bronzi del mondo ellenistico, eccezionale scelta della produzione plastica dovuta alla fase più lunga e complessa dell’avventura dei Greci dal vicino oriente al lontano occidente: l’Italia meridionale, la Sicilia fino alle sponde iberiche (Empórion, oggi Ampurias) e alla Costa Azzurra. In termini storici, il periodo ellenistico – così definito dall’aggettivo hellenistés, che indicava lo straniero acculturato alla lingua e al costume dei Greci – tra la morte di Alessandro Magno (323) e l’avvento di Ottaviano (31 a. C.).
Jens M. Daehner e Kenneth Lapatin, archeologi del Getty Museum di Malibu (California), hanno pensato con grande impegno mostra e catalogo (Giunti, pp. 367, euro 42). Essenziale in Firenze l’apporto di Andrea Pessina, Soprintendente per i Beni archeologici della Toscana, e di Mario Iozzo, del Museo Archeologico Nazionale di Firenze, dove ha luogo in contemporanea l’esposizione Piccoli, grandi bronzi, con allestimento e catalogo coerenti alla presentazione dei Bronzi del mondo ellenistico. Direttrice scientifica della Fondazione Palazzo Strozzi è la storica dell’arte Ludovica Sebregondi, specialista del rinascimento, che ha trasmesso dall’antico il testimone alle didascalie per i visitatori attraverso le sale, confermando la perizia esercitata presso altre manifestazioni nel mobilitare risorse informatiche, quali le touchtable che illustrano la portentosa Testa di cavallo Medici Riccardi (n. 3) o l’avventura subacquea di alcuni reperti. Le si devono infine il Passaporto e la Mappa per l’archeologia in Toscana, che incontrano crescente successo non solo nel pubblico scolastico, al quale s’indirizza comunque il Dipartimento educativo dello stesso Palazzo Strozzi. Un’Italia che funziona, nel cuore di una regione fervida di responsabilità civile.
Rispetto al manifesto ellenistico, la rassegna fiorentina incorpora anche momenti di maggiore antichità, dai quali può ricominciare una selezione personale di magnifici esemplari, da parte di chi abbia già percorso le nobili sale, attento alla distribuzione per categorie proposta dai curatori americani: ritratti del potere; corpi ideali, corpi estremi; realismo ed espressività; repliche e mimesi; divinità; stili del passato.
A voler privilegiare il senso della progressione storica, familiare nella tradizione europea quale motivo d’ordine nei fenomeni, si può ripartire dal raro episodio dei tre bronzi uguali (n. 40, a Vienna da Efeso; n. 41, a Lussino dal mare dell’isola croata; n. 42, a Fort Knox, Texas, la sola testa, dalla collezione Nani di Venezia) ricavati a stampo dal medesimo modello dell’Atleta che ripulisce lo strìgile dopo averlo usato per detergersi: l’originale risaliva a un bronzista della discendenza di Policleto, intorno al 360. Lisistrato, fratello di Lisippo, diffondeva la riproduzione con forme in gesso, prese anche dal vivo, in un anelito veristico rilevato da Plinio. I multipli offerti in Palazzo Strozzi ne sono testimonianza tecnica, mentre il cosiddetto Pugile delle Terme, del Museo Nazionale Romano, è un prototipo dove la passione del vero giunge a rappresentare i traumi del volto. È questo l’ultimo dei convitati di bronzo che giunge solo ora a Firenze, dopo essere stato ospite al Metropolitan Museum di New York. In realtà l’atleta porta i guantoni che lasciano libere le dita per le prese di lotta, rinforzati dalle stringhe, himántes, di cui scriveva Platone nelle Leggi, intorno al 350 a. C., proprio per distinguere l’attributo del pancraziaste (lotta e pugilato insieme) dai pesi di cui erano dotati i pugili. Si ripete una datazione al tardo ellenismo, mentre è documentata l’identificazione con Polidamante di Scotussa, pancraziaste celebrato nel 338 con l’immagine postuma plasmata da Lisippo, di cui si conserva anche la predella a rilievo sulla base in Olimpia, con la superficie di appoggio di un metro quadrato, atta ad accogliere il vincitore seduto.
Di Lisippo contempliamo ancora la statuetta di Eracle in riposo (338-336), trovata nel santuario di Sulmona, dove era stata dedicata come prezioso oggetto di antiquariato da un mercante italico nella prima età imperiale (n. 16). Lascia intendere lo stupore di Stazio nelle sue Selve per un piccolo Eracle seduto a mensa (anch’esso attestato da una statuetta in mostra, n. 17): «in così breve spazio, tanto grande illusione di bellezza! Quale misura nella mano! Quanta esperienza nell’applicazione del provetto artefice, per plasmare ornamenti da tavola e intanto agitare nell’animo immani colossi». Il poeta impostava la dialettica della maturità di un’arte universale.
Tra la classicità, cui appartengono i capolavori citati, e l’ellenismo nella piena espressione del páthos («passione», da cui il titolo dell’evento) si è individuata da tempo la generazione della maniera, che inizia nel 323, quando non solo Alessandro, bensì alcuni maestri, Prassitele, Silanione ed Eufranore, sono scomparsi, mentre si affermano i loro figli e discepoli, in parallelo con gli eredi diretti del re, i diàdochi nella definizione storica, signori della guerra che lottano per dividersi le conquiste. Evidente la coincidenza con quanto accadde in Europa tra gli artefici del primo Cinquecento (convenzionalmente, avanti il sacco di Roma del 1527) e il barocco, che supera la «grande» o «perfetta maniera» con l’attività di Caravaggio (1590-1610). Sappiamo del vecchio Lisippo, nato intorno al 390, che nel 314 diventava in qualche modo manierista di se stesso, riassumendo le proprie principali invenzioni per celebrare le Dodici Imprese di Eracle, trovando poi la forza di trasferire l’officina a Taranto per innalzare i rivoluzionari colossi di Zeus e di Eracle.
Annoveriamo alla maniera antica la citata testa di cavallo, proveniente da Roma, che faceva parte della collezione di Lorenzo il Magnifico (n. 3). Notevole la somiglianza con quella che a Napoli risultava donata nel 1471 dallo stesso Lorenzo, ora in quel Museo Archeologico Nazionale. Entrambe segnalano un complesso equestre, sulla traccia di Lisippo, di cui abbiamo per confronto in mostra (n. 2) la replica ridotta dell’Alessandro in groppa a Bucefalo nella battaglia sul fiume Granico (334).
Termine finale dell’età dei diàdochi era per lo storico Diodoro Sìculo il 301, quando cadde in battaglia Antigono, strenuo fautore dell’unità del dominio. Da quel momento la memoria di Alessandro, come potenziale sovrano della terra abitata, non è più un modello attuabile, e le diverse corti si stabilizzano come autonome cerchie di artefici.
Il mondo che segue è quello degli epìgoni, pur sempre «successori», bensì distanti da Alessandro, quando vediamo delinearsi il cantiere di Pergamo, la scuola di Rodi, l’intrepida ricerca del Museo che in Alessandria spinge l’arte figurativa all’immagine della sofferenza e della deformazione. Le diverse tendenze rivivono nel dossier proposto dal Getty Museum, con i prestiti internazionali da importanti collezioni pubbliche e private: si raccomanda full immersion, anche grazie ai saggi introduttivi del catalogo!
Illustriamo solo l’idillico Eros dormiente, Metropolitan Museum di New York, da un motivo che Prassitele aveva affrontato con altro disegno nel marmo. Viene da Rodi, vicino nello schema, pare incredibile, al mostruoso Ciclope, addormentato dal vino di Ulisse, che conosciamo nel gruppo di Sperlonga: produzione del’isola dorica, corrispondente all’Altare di Pergamo, meglio definito storicamente (197-168).