Il ministro giapponese per l’ambiente e le emergenze nucleari Yoshiaki Harada ha dichiarato ieri che l’unica soluzione praticabile per smaltire l’acqua contaminata proveniente da tre reattori di Fukushima è quella di scaricarla in mare, aggiungendo (bontà sua!) che prima verrebbe diluita. Si tratta di oltre 1 milione di tonnellate di acqua che dopo l’incidente, non essendo più operativi i sistemi di raffreddamento in circuito chiuso, è stata pompata nei noccioli per raffreddarli e poi convogliata in serbatoi di stoccaggio allocati nel sito dell’impianto.

Ora, dopo 8 anni, sul sito non c’è più spazio per altri serbatoi. Il governo giapponese si è affrettato a sottolineare che Harada ha espresso un’opinione personale, ma non sembrano esserci alternative praticabili allo scarico in mare che, se attuato, avrebbe conseguenze incalcolabili dal punto di vista ambientale e sanitario, non solo per il Giappone. La Tepco (proprietaria di Fukushima) ha creato così una emergenza nell’emergenza per una scelta tecnica di cui avevo già sottolineato la temerarietà: quella cioè di pompare acqua nei reattori in circuito aperto confidando poi di poterla decontaminare e quindi scaricarla in mare così da raggiungere un equilibrio. Ma era evidente fin dall’inizio che la quantità di acqua trattabile in un sistema di decontaminazione – per quanto capace esso fosse – era decisamente inferiore alla quantità di acqua pompata nei reattori per cui, giocoforza, si è dovuto immagazzinarla in serbatoi.

Tra l’altro molti di questi serbatoi erano inizialmente flangiati (cioè a lastre di metallo imbullonate) e hanno ceduto a causa della pressione riversando sul terreno (e poi in mare) acqua contaminata, tant’è che nel marzo scorso la Tepco annunciava di aver completato la sostituzione di questi serbatoi con altri a lastre saldate che comunque non sono antisismici e quindi in caso di terremoto perderebbero facilmente la loro capacità di contenimento. Stanno venendo al pettine tutte le caratteristiche negative, non solo della tecnologia nucleare in sé, ma delle scelte logistiche e di gestione della Tepco.

Se è vero infatti che subito dopo l’incidente il raffreddamento dei noccioli dall’esterno era la scelta obbligata, bisognava pensare -nel tempo – a soluzioni alternative, quali l’entombment dei reattori, anche se questo è reso difficile dalla loro vicinanza al mare (non c’è spazio per un sarcofago tipo Chernobyl!).

Né del resto si è mai pensato a rimuovere dal sito l’acqua contaminata che si accumulava (per esempio trasportandola via mare ) o a costruire ex novo circuiti di raffreddamento in ciclo chiuso esterni al reattore, in modo da limitare l’accumulo di acqua. È chiaro che nessuna di queste soluzioni , ammesso che siano praticabili, è esente da conseguenze ambientali; ma qui si tratta ormai di limitare i danni del dopo Fukushima che sono solo all’inizio, con buona pace di chi sostiene che, tutto sommato, Fukushima non è stato come Chernobyl.

C’è solo da sperare che la ola di protesta ambientale che coinvolge molti paesi del mondo, assuma nella sua agenda la situazione di Fukushima per impedire a tutti i costi al Governo giapponese di scaricare in mare, insieme all’acqua radioattiva, anche le sue responsabilità e quelle della Tepco.