Come dipingere la neve su un foglio bianco? Come farla balzare in primo piano perché l’occhio possa percepirne la morbidezza, l’abbagliante splendore, il silenzio magico che porta con sé? Molti fotografi e pittori si sono cimentati nel difficile compito prendendo a modello il vulcano più celebre del Giappone, il monte Fuji, eletto patrimonio mondiale dall’Unesco come luogo sacro e fonte d’ispirazione artistica. Alla metà dell’Ottocento, Felice Beato è il primo europeo che lo riprende circondato dalle nuvole. Ma la sua foto scattata da lontano, sfumata e imprecisa, non ne rende la maestosità. Sono gli artisti giapponesi del periodo Edo a utilizzare il bianco della carta per renderne la bellezza, inventando forme e stili di grande modernità. Nella tradizione giapponese, ognuno fa tesoro di chi viene prima. Se lo stile di Utagawa Hiroshige si ritrova in Kobayashi Kiyochika, il suo linguaggio si riprone in Kawase Hasui, il più grande artista del movimento shin-hanga che sostiene l’importanza dell’incisore, dello stampatore e dell’editore, accanto all’artista. Ma i soggetti e la composizione dei dipinti sono simili a quelli del periodo precedente. Le stampe impresse su carta con matrici di legno sono delle opere fragili, particolarmente sensibili alla luce, che proprio per questo possono essere presentate solo per un breve periodo. Dopo il lockdown e la riapertura, la mostra «Fuji pays de neige» al Musée national des arts asiatiques Guimet di Parigi chiude il 12 ottobre.

All’incrocio tra natura e cultura, il monte Fuji, è un kami, l‘entità divinizzata dagli shintoisti che vi si recano in pellegrinaggio almeno una volta all’anno, che regna sugli spiriti e sul paesaggio del Giappone, diventando un soggetto per l’arte. Nell’isola di Honsu, a cento chilometri a sud-ovest di Tokyo da cui si può ammirare nelle giornate limpide, smog permettendo, il Fuji con i suoi tremilasettecentosettanta metri di altezza è il vulcano più alto del Paese, il più visitato e il più rappresentato. Ricoperto da una fitta vegetazione di pini, cedri e cipressi fin verso i duemilasettecento metri, deriva il suo nome da un’antica parola che significa fuoco. Quello che colpisce è la bellezza della sua cima perfettamente conica, innevata per buona parte dell’anno. Dalla metà del diciassettesimo secolo le stampe servivano esclusivamente per la pubblicità, non erano ancora considerate adatte all’espressione artistica. È con la nascita dell’ukiyo-e e cioè l’evocazione del «mondo fluttuante», espressione poetica non esente d’ambiguità per definire i piaceri edonistici della società di Edo, l’attuale Tokyo, in un periodo di pace e di prosperità, che lo scrittore Asai Ryoi scrive: «Vivere unicamente il momento presente, abbandonarsi alla contemplazione della luna, della neve, dei fiori di ciliegio e delle foglie di acero, non lasciarsi abbattere dalla povertà e non lasciarla trasparire sul viso, ma lasciarsi trasportare come una zucca sul fiume, è quello che si chiama ukiyo».

Quando Katsushika Hokusai si affaccia sulla scena artistica in primo momento si dedica ai ritratti di attori, di cortigiane e di altre bellezze celebri, ma verso il 1820 si rivolge al paesaggio, seguendo il gusto dei suoi concittadini per i viaggi quando il miglioramento delle strade, a cominciare da quella del Tokaido, facilitano gli spostamenti. Fortemente impregnato di buddismo e di shintoismo, nelle sue opere cerca di descrivere un viaggio interiore più che un viaggio reale. Fino a quel momento il paesaggio non era completamente assente dall’arte della stampa, ma per la maggior parte costituiva uno sfondo per la scena principale. Con le Trentasei vedute del monte Fuji del 1829-1833, diventa il soggetto unico di una serie dal successo immediato e senza precedenti. La più alta vetta dell’arcipelago giapponese dal cono perfetto, luogo spirituale per eccellenza, diventa il punto di riferimento della sua attività, in cui viene perfezionando al massimo la tecnica della stampa mentre si riallaccia all’antica tradizione cinese e giapponese della pittura di paesaggio, pur tenendo conto della prospettiva delle opere occidentali. Diventata un’arte maggiore, la stampa si mette alla pari delle altre espressioni artistiche. Sia soggetto unico della composizione, sia elemento quasi nascosto in secondo piano, il Fuji diventa pretesto per l’osservazione delle variazioni dell’atmosfera, gli aspetti mutevoli della neve, i colori del cielo, tanto da influenzare le sfumature degli impressionisti francesi. Hokusai introduce nel paesaggio il punto di vista del personaggio e la nozione di impermanenza, la transitorietà della vita e della morte, su cui si basa la visione buddista. Ma che è anche l’essenza stessa dell’ukiyo.

Le risaie di Ono nella provincia di Suruga del 1830 mettono in scena in primo piano una fila di contadini che guidano i cavalli carichi di fascine. Altri portano sulle spalle pesanti fagotti, fardelli di una vita dura. Uomini e donne che trascorrono la l’esistenza oberati dal lavoro. La stampa in bianco e nero non sembra dare speranze se non nella fine, mette malinconia, mentre sullo sfondo il bianco Fuji sembra osservare impassibile quello che scorre ai suoi piedi.

Hara di Hiroshige della metà dell’Ottocento sembra la summa della sua concezione artistica. I viandanti in primo piano, bianchi su fondo blu, si avviano su una strada che non si sa dove conduca. Tre alberi scossi dal vento subito dietro di loro li separano da un terreno scuro punteggiato da piantine (di riso?). Una distesa di neve bianca, abbagliante, si stende ai piedi del monte. Il Fuji in tutta la sua maestà, addobbato di neve, domina la stampa. Fulcro della visione, sembra l’unico elemento immutabile in un mondo in continuo cambiamento. Le stampe sono sempre disegnate in serie per dare una visione il più completa possibile del soggetto che si vuole raffigurare. In Oi (Quarantasettesima tappa) della Serie delle sessantanove tappe del Kisokaido, Hiroshige raffigura un paesaggio stilizzato racchiuso tra due alberi coperti di neve. Sulla destra avanzano tre viandanti di cui non si vedono i visi ma solo i grandi cappelli bianchi, le gambe immerse nella neve, i cavalli carichi. Dietro di loro monti arrotondati sotto un cielo scuro da cui cadono i fiocchi di neve.

In piena epoca Edo, Isoda Koryusai negli ultimi anni del Settecento raffigura Una cortigiana della casa Asahimaruya della serie Presentazione di nuovi motivi alla moda che, aiutata da due ancelle, mostra un fine tessuto con l’immagine del Fuji innevato che emerge da nuvole color ocra-cipria. Gli stessi colori delicati del lussuoso kimono della cortigiana dai ricchi spilloni che le acconciano la capigliatura. Siamo già nel Novecento quando Kawase Hasui dipinge Sera di neve a Terajima. La protagonista questa volta è la neve. Cade ancora dal cielo ma ha già coperto i tetti delle case del villaggio dalle finestre illuminate, che si schierano nel loro tepore lungo i due lati di un ruscello attraversato da passerelle che congiungono le due rive. L’azzurro grigiastro del cielo, l’azzurro più intenso del corso d’acqua e la macchia dello stesso colore addosso all’unico viandante, protetto da un ombrello bianco, sono i soli colori che si stagliano sul nero dell’argine e delle facciate delle case. Su tutto prevale il bianco abbagliante della neve.