Sul Lido inizia a sentirsi il rumore delle valigie, passato il fine settimana con le star hollywoodiane, l’impressione è che inizi pian piano a svuotarsi mentre parte, come sempre, il toto-Leoni. Intanto ieri si è chiuso lo spazio della VR, la realtà virtuale, un successo inaspettato che ha sorpreso persino gli organizzatori con il tutto-esaurito alle diverse postazioni ogni giorno, tutti in coda per scoprire la dimensione immersiva di un film di Tsai Ming Liang o dell’installazione di Laurie Anderson. Ieri è stato anche il giorno di John Woo, maestro per generazioni di registi, Tarantino lo ha sempre indicato come uno dei suoi più importanti riferimenti, e in questo suo nuovo film l’effetto «rifrazioni di specchi» è quasi un’epifania.

Del resto Manhunt (fuori concorso) – che da qui approderà anche al festival di Toronto appena iniziato – è un omaggio al cinema, quello amato dal suo autore, i polizieschi degli anni sessanta e settanta ma anche gli autori giapponesi, come Ken Takakura del cui Manhunt il film di Woo è un «eccentrico» remake nella cifra del contemporaneo.

«La mia infatuazione per il cinema giapponese è cominciata in tenera età. Realizzare un film con cui rendere omaggio a un autore che amo molto, quale è Takakura, è stato il coronamento di un sogno che avevo accarezzato da molti anni» dice Woo. Girato in Giappone, con riferimenti alla Cina e anche all’America, la geografia produttiva (del film) e personale di Woo, Manhunt dichiara subito sostanza e passioni cinefili, con una prima scena in cui i tre personaggi, in un locale giapponese «vintage», le ragazze col kimono, l’uomo che prova a salvarle dai guai, citano i «film classici» – oggi non si parla più così, sospira la ragazza, e mentre lui va a cercarle il dvd di un titolo del passato, le due si trasformano in giustiziere implacabili sterminando la gang yakuza che pensava di divertirsi con due povere fanciulle.

Thriller di intrighi , vestiti nuziali insanguinati e amate mogliettine uccise da pirati della strada, Manhunt (Zhuibu), che è stato girato a Osaka, ruota intorno all’ avvocato cinese di una potente multinazionale farmaceutica giapponese che sta per tornare in America. Una mattina l’uomo si sveglia e nel suo appartamento trova sdraiata accanto a lui una ragazza, che lo aveva corteggiato la sera prima a una festa, morta. La polizia arriva, lui non ricorda nulla ma sa che è innocente, che la polizia è corrotta e che l’omicidio è stato messo in scena per incastrarlo. Fugge scatenando così una caccia all’uomo senza scampo, in cui entrano un detective molto Marlowe, che nel portafogli conserva la fotografia della donna amata morta, una giovane poliziotta al suo primo incarico, la vedova dello scienziato suicida in cerca di vendetta, due killer spietate che una sostanza misteriosa rende quasi immortali.

Cosa si nasconde dietro al delitto? Chi vuole l’avvocato morto? E quei due, il fuggitivo e il detective che lo insegue sono davvero nemici o piuttosto non hanno affinità molto pericolose per chi trama nell’ombra? A questo punto la scommessa – registica – è: come mantenere la tensione di una caccia all’uomo (Manhunt) a partire dal movimento che la fonda, un personaggio in fuga, un altro (o più) che lo insegue. Woo è magistrale, articola la sua regia con un meccanismo perfetto di tempi e di azione, riesce a attivare ogni genere con precisione spostandone ogni volta il segno: commedia, melodramma, poliziesco, serie tv, comicità un vortice di omaggi e citazioni (anche di sé). Manhunt però non è un vintage della nostalgia, anche se appunto nel cinema rivendica la sua forza di movimento, respiro, energia, dinamiche di tempo, spazio.

La multinazionale sperimenta sugli homeless che spariscono nel nulla, il detective rischia la morte, la misteriosa donna che lo aveva un po’ sedotto alla festa si rivela la vedova disperata dello scienziato. Woo accumula ma semplificando, libera il movimento (delle immagini) e ne spiazza a ogni nuovo passaggio le attese. Sarebbe stato facile per un regista di settantuno anni adagiarsi sul proprio stile, e lasciarsi andare s una rassicurante autoreferenzialità. E invece Manhunt è una sorpresa, in purissimo stile Woo, irriverente, scanzonato, ma soprattutto con un piacere di giocare col cinema, oggetto di amore assoluto, che non è mai scontato.