«Non sono cresciuto con i racconti di trincea dei nonni. Però quando ero bambino, negli anni Cinquanta, a Aubervilliers, banlieue nord di Parigi, c’erano quelli che chiamavamo “gueules cassées”, i vecchietti rimasti invalidi o sfigurati combattendo nella Prima guerra mondiale che vendevano i biglietti della lotteria. Me li ricordo bene, alcuni mi incutevano molto paura per le loro ferite. Più tardi, da adulto, mi è capitato spesso di passare davanti a qualche monumento eretto alla memoria dei caduti. Una mattina, sarà stato poco più di una quindicina d’anni fa, di fronte a uno di questi “sacrari” stavano celebrando l’anniversario della Grande guerra. C’erano il sindaco, quattro o cinque consiglieri comunali, qualche pompiere e praticamente nessuno ad assistere. In una piazza deserta venivano scanditi i nomi dei “morti per la Francia”. Una scena tristissima. Ho provato un sentimento di profonda ingiustizia per la sorte di quei ragazzi crepati al fronte e poi trattati così. Credo di aver deciso allora di scrivere questo libro».

In Italia per partecipare al «Festival de la fiction française», Pierre Lemaitre evoca così la genesi di Arrivederci lassù (Mondadori, pp. 454, euro 17,50), il romanzo che gli ha fatto vincere il premio Goncourt e che in Francia ha già venduto oltre 500mila copie. Un libro che mescola l’attenzione per il lato in ombra delle vicende transalpine con un grande affresco di respiro storico e sociale.

Scampati a stento alla morte nelle trincee, due giovani soldati, Albert, proletario e introverso, e Edouard, esuberante e di estrazione borghese, inseguono la loro rivincita organizzando una truffa che ha per oggetto proprio la nuova «industria» dei sacrari dedicati ai caduti fiorita dopo quella che Lemaitre stesso definisce come «la macelleria senza nome del 14-18». Una storia picaresca dove all’orrore della guerra, descritto minuziosamente fin dalle prime pagine, si risponde con l’ironia e con una critica radicale del nazionalismo. Non a caso, l’ufficiale pluridecorato che rappresenta il principale antagonista dei due giovani, è descritto come un vero e proprio criminale di guerra.

Perché uno dei più apprezzati scrittori europei di noir ha deciso di cimentarsi con un altro genere narrativo?

Mi verrebbe da dire che in realtà ho solo sperimentato un altro aspetto del mio lavoro. In effetti non credo che il mio modo di procedere, a parte le lunghe giornate passate in biblioteca e su internet a cercare documenti e giornali d’epoca per documentarmi sul primo dopoguerra, sia cambiato granché rispetto al passato. Arrivederci lassù si apre su un duplice omicidio compiuto da un ufficiale per spingere i suoi soldati ad attaccare le trincee tedesche. Il clima non è poi così lontano da quello del noir. Diciamo che per scrivere questo romanzo mi sono liberato dell’abito del poliziesco, ma ho conservato il meglio, direi il cuore stesso del noir, vale a dire l’azione e i rapidi cambi di scena.

“Arrivederci lassù” è uscito in Francia alla vigilia delle commemorazioni per il centenario della Grande guerra. L’anniversario l’ha spinta verso questo tema?

Direi proprio di no. Quella guerra e la sorte toccata a tanti giovani, spesso poco più che adolescenti, che una volta tornati a casa dalle trincee si sono visti rifiutare ogni aiuto e sostegno dalla Francia, fa parte da tempo del piccolo museo personale del mio immaginario. Ma c’è anche dell’altro. Ho scelto di raccontare il clima difficile del primo dopoguerra perché sono stato colpito dalla similitudine tra quel periodo e quello che stiamo vivendo ora. Certo, la società francese di oggi non è paragonabile a quella di allora, anche se si ha l’impressione di cogliere qui e là risonanze sinistre. Penso in particolare all’emarginazione in cui vivono tanti giovani e alla precarietà che contraddistingue le loro esistenze. Dopo la Prima guerra mondiale il problema era che degli ex combattenti non si sapeva più che cosa fare. Oggi, un francese su due teme di finire come un barbone: senza stipendio, né casa, né affetti. Non hanno tutti i torti. C’è sempre più gente che ha fatto tutti i sacrifici che gli sono stati richiesti, o imposti, e alla fine finisce lo stesso per perdere tutto perché viene licenziata e si ritrova a tirare avanti in qualche modo con i pochi soldi della disoccupazione. Una condizione, quella del disoccupato, che è solo il primo passo verso la piena esclusione sociale. Come nel 1918, per molti non sembra esserci più posto tra noi.

La denuncia delle ingiustizie subite sembra ritornare in quasi tutti i suoi romanzi, in modo particolare in quest’ultimo e in «Lavoro a mano armata». La letteratura può rendere giustizia ai più deboli o addirittura vendicare i torti che hanno subito?

È vero, l’ingiustizia sociale è un tema centrale in tutto il mio lavoro. Attenzione: sono solo uno scrittore, qualcuno che racconta delle storie più o meno bene, non voglio che mi si prenda troppo sul serio. Però è questa visione del mondo che non esiterei a definire «politica» che mi accompagna da sempre quando scrivo. E se anche non serve a granché, se non cambia ciò che sta intorno a me o «lo stato delle cose presenti», non credo che modificherò mai questo mio approccio alla realtà. Detto questo, devo però ammettere che nessun libro è mai riuscito davvero a cambiare qualcosa nella vita di un individuo, tanto meno a rendergli giustizia. O almeno non ce l’hanno fatto sapere!

Una volta tornati dal fronte, Albert e Edouard stentano a trovare un posto nella società. Ad altri, come al loro ex tenente, di famiglia aristocratica, per quanto decaduta, va decisamente meglio. Neanche nei periodi di crisi siamo tutti uguali?

Diciamo che la mia provenienza letteraria, la scuola di cui mi considero un erede, anche se poco più che principiante, è quella costruita dai grandi romanzi dell’Ottocento, penso soprattutto ad autori come Victor Hugo e Alexandre Dumas, che per far passare un messaggio forte, come accade ad esempio ne I miserabili, ricorrevano ad una rappresentazione della realtà basata su contrasti molto netti, contrapposizioni evidenti e quasi schematiche. Si tratta di «romanzi semplificatori», nel senso che si basavano su opposizioni molto vigorose, frontali, tra personaggi e situazioni. Tutto ciò può dare l’idea di una sorta di lotta di classe permanente, in cui i potenti, dall’alto, si contrappongono ai più deboli che stanno sempre in basso. Personalmente, però, ciò che mi interessa davvero non è tanto il contrasto tra ricchi e poveri, quanto piuttosto mostrare come proprio l’emergenza di queste ingiustizie sociali macroscopiche riveli come il sistema stesso sia in panne. Se a tavola non c’è più posto per tutti, allora il problema non è solo che qualcuno ha avuto una fetta troppo grossa, ma che l’intera baracca è da rimettere a posto.

L’anniversario della «Grande guerra» non è stato indenne dalla retorica, cosa cui sfugge invece il suo romanzo che affronta l’orrore perfino con ironia. I suoi reduci non vogliono essere eroi?

Credo poco o per niente nell’eroismo e molto di più al sangue freddo e alla fortuna, cioè al fatto che si possono anche compiere dei gesti eroici, ma per puro caso. Non solo, con Arrivederci lassù ho cercato di costruire una sorta di controcanto alla cultura dell’estrema destra francese, oggi molto popolare, che cerca di mettere in rilievo i presunti aspetti eroici della nostra storia nazionale. E questo anche quando non ce n’è proprio alcuna traccia. Procedendo con il mio metodo da giallista, ho scelto di raccontare invece le pagine meno esaltanti e più contraddittorie di quel periodo. Più che i trionfi, le sconfitte, la vigliaccheria più che l’eroismo, le cose di cui vergognarsi più che quelle di cui andare eventualmente fieri. E i miei personaggi, piuttosto che ad essere celebrati da un monumento alla memoria, hanno puntato fino all’ultimo a restare vivi. Alla mitologia patriottica, che cela ogni sorta di interessi ed è pronta a speculare su qualunque cosa, non ho fatto alcuna concessione. Il mio romanzo si chiude con una dedica ai caduti di ogni nazionalità della guerra 1914-1918-