In poche settimane, quelle comprese tra il voto della Camera sull’Italicum e le elezioni Regionali, arriverà a compimento la trasformazione genetica del Pd, avviato ad avere solo il nome in comune col partito fondato da Walter Veltroni. Anzi il marchio: «Il brand». Il voto sulla legge elettorale e poi, a ruota, il bilancio di elezioni che promettono sciagure, sarà per Forza Italia il momento della deflagrazione. Sandro Bondi e sua moglie, Manuela Repetti, sono stati gli apripista. Formalmente fanno parte del Gruppo Misto. A tutti gli effetti sono in forza al Pd. Denis Verdini li seguirà presto (anche se i suoi smentiscono il «soccorso azzurro» sull’Italicum), e non da solo. Il violento scambio con Berlusconi della settimana scorsa è quanto di più eloquente si possa immaginare: «Non sei più il numero uno. Devi rassegnarti a essere il numero due dopo Renzi». Frasi nelle quali ogni distinzione ideologica o programmatica si è smarrita: non partiti e progetti diversi, ma teste di serie numero uno o due. Fungibili.

Al momento, con Denis Verdini sono schierati due o tre senatori e una decina di deputati, ma le proporzioni potrebbero cambiare di molto dopo i risultati delle elezioni Regionali. Salvo miracoli, la nave azzurra risulterà vicina all’inabissamento. L’insanabile discordia tra il capo e Raffaele Fitto, anch’essa destinata a concludersi con la separazione dopo il voto, farà il resto. Parecchi occhi verranno distolti dalle macerie di Arcore per volgersi verso i gonfaloni al vento di Firenze.

Nelle realtà locali, la migrazione è già avviata ed è impressionante. La settimana scorsa l’Huffington Post ha pubblicato una lista foltissima di politici che, dietro la foglia di fico delle Liste civiche, hanno già saltato il fosso. Il plotone si gonfierà a dismisura.

L’esodo non riguarderà solo il castello azzurro in rovina. I fratellini separati di Area popolare, Udc e soprattutto Ncd, si trovano in situazione identica. L’Ncd reggerà sino alle elezioni, nella speranza di raggranellare voti sufficienti a offrire una speranza di sopravvivenza. Se così non sarà, la pattuglia di Alfano diventerà una centrifuga: alcuni brandelli verranno calamitati dal miraggio leghista o dai resti di Fi, ma molti altri, a partire dalla ministra Lorenzin, correranno in direzione opposta.

Di questa trasformazione profondissima, Renzi, spalleggiato soprattutto dal fedelissimo Luca Lotti, è il consapevole agente principale. Basta leggere la lettera inviata ieri ai parlamentari per sincerarsene. In un Paese squassato dalla crisi, e flagellato dalla diseguaglianza sociale, non c’è un solo rigo che suoni come rivolto alla tradizionale base di un partito di centrosinistra, fosse pure il più moderato. Non c’è una sola parola che non possa essere sottoscritta da un esponente o da un elettore di centrodestra, fatti salvi i truculentissimi. Il richiamo all’orgoglio di partito, insistente, è ridotto all’esaltazione di un simbolo la cui esistenza si giustifica in sé, e mai come rappresentanza di interessi o modelli sociali. Non molto diversamente dal saluto alla bandiera negli stabilimenti Toyota.
Ma se la trasformazione genetica è decisiva, che del Pd non va salvato nulla, altrettanto può dirsi a proposito della difesa del marchio. Quello di Renzi è in effetti una sorta di trasformismo rovesciato: dall’antico «lasciare tutto com’è cambiando il nome» al moderno «cambiare tutto ma lasciando il nome». Perché «il brand», come candidamente confessò lo stesso Renzi a proposito delle feste dell’Unità, è un valore e porta voti. E’ solo dei contenuti che si può, anzi si deve, fare a meno. Non è mica un caso se, dopo quel discorso, l’Unità non esce più, ma le Feste dell’Unità ci sono di nuovo.

Nella difesa a oltranza del nome separato dalla cosa, c’è però di più. Renzi auspica probabilmente la nascita di un partito a sinistra nel quale riversare una parte dei suoi dissidenti, però di dimensioni ridotte. Gli elettori, ma anche una parte cospicua del ceto politico, di sinistra, devono guardare o poter fingere di guardare al Pd come a un partito ancora di centrosinistra. Per questo e solo per questo, al posto di Roberto Speranza, Renzi vuole alla guida dei deputati qualcuno che gli somigli: di minoranza, però mai realmente minaccioso. Come l’ex ministro Cesare Damiano o Enzo Amendola.