Il fine ultimo delle elezioni è quello di eleggere un Parlamento rappresentativo che – mediante il lavoro politico – arrivi alla formazione di un governo e non quello di eleggere direttamente un governo modificando il risultato delle elezioni.

Attribuire un cosiddetto “premio di maggioranza” alla lista o alla coalizione che non è stata capace di arrivare appunto, alla maggioranza, è un trucco che denota la debolezza del sistema e delle classi dirigenti che l’hanno imposto, perché presuppone che la maggioranza uscita dalle urne non sia in grado, non abbia la forza, e gli argomenti, atti a convincere le minoranze – o una parte di esse – ad allearsi per la formazione di un governo.

E a causa di questa debolezza deve per essere “premiata”, trasformando una minoranza di elettori (ad esempio il 40%) in una maggioranza di eletti. Con ciò ovviamente penalizzando la maggioranza degli elettori (il restante 60%) il cui voto viene tradotto in una minoranza di eletti.

Un vero e proprio artificio il cui esito non può che essere l’allontanamento dei cittadini, la disaffezione verso le elezioni che vengono percepite come sempre più inutili dal momento che tra soglie di sbarramento, premi di maggioranza e listini bloccati il voto diventa una delega ai capibastone dei partiti (non mi azzardo a chiamarli leaders e nemmeno segretari) per stabilire chi comanda e nominare il Parlamento che deve ubbidire.

Ecco perché più che i segni di rispetto e di amicizia che possono tributarsi agli avversari (abbracci compresi), inquieta il seguito mancato in termini di esplicito e chiaro dissenso politico rispetto a chi intendeva trasformare il Senato nel dopolavoro delle proprie nomenclature e togliere definitivamente ai cittadini il diritto di voto, e, per di più, di fronte al nettissimo pronunciamento degli italiani – non proni di fronte alla alluvionale propaganda governativa – insiste oggi nel dire che se fosse passato il si al referendum la vita di tutti sarebbe migliorata.

Rispetto, dunque, anche per le idee che rimangono indifferenti alla volontà popolare, ma nel contempo dissenso netto e senza equivoci.

E ciò è mancato. Ed è un pericolo perché esprime una sinistra ancora una volta intransigente sui nomi e accomodante sui principi mentre dovrebbe essere il contrario. Nessun veto pregiudiziale, neanche per chi magari in altri momenti stava da altre parti, ma ora, almeno, è indispensabile un’intesa chiara sui contenuti. Se così non sarà, vedremo continuare l’esodo degli elettori, poco affascinati da questa politica politicante che non conta e non fa contare nulla, che sembra così coltivare uno dei celebri aforismi di Sabatier: «C’è un’azione peggiore che quella di togliere il diritto di voto al cittadino, e consiste nel togliergli la voglia di votare».