Le attenzioni dell’editoria italiana verso la letteratura irlandese vantano una tradizione notevole, con il contributo di nomi illustri – Gabriele Baldini, Italo Calvino, Giorgio Manganelli, Gianni Celati e altri – e tuttavia non sono mai riuscite a consolidarsi, motivo per cui procedono a singhiozzo e alternano proposte ambiziose a lacune imbarazzanti.

La vitalità e lo sperimentalismo espressi di recente da una generazione di scrittori cresciuta nell’agio e negli eccessi della Celtic Tiger, poi costretta a fare i conti con la crisi economica avviata nel 2008, non ha ancora raggiunto i nostri scaffali sebbene da anni riscuota un notevole successo in Francia, Germania e, ovviamente, in Inghilterra e negli Stati Uniti, come dimostrano gli speciali dedicati da sofisticate riviste quali Granta Magazine. Ripara parzialmente a questa negligenza la traduzione di Red Sky in Morning di Paul Lynch, firmata da Riccardo Michelucci e pubblicata da 66thand2nd col titolo di Cielo rosso al mattino (pp.234, euro 17).

OPERA PRIMA contesa all’asta da sei case editrici, il romanzo è uscito in Irlanda nel 2013 conquistando immediatamente all’autore una sorta di adorazione dei letterati, fra i quali Edna O’Brien, Donal Ryan e Hugo Hamilton, e strapazzando la platea dei lettori anglofoni con una storia sconcertante e una scrittura resa peculiare da passaggi ostilmente avanguardisti in contrappunto a brani di accattivante virtuosismo.
La cifra stilistica di Paul Lynch (un’intervista all’autore è uscita su il manifesto il 27 maggio scorso, ndr) è, non a caso, una ardita contaminazione di prosa poetica, codice filmico e polifonia di idioletti popolari, miscela dosata con disinvoltura e consapevolezza attraverso un fitto dialogo fra motivi e stilemi delle tradizioni letteraria e cinematografica.

La struttura narrativa riproduce, infatti, la tensione interpretativa delle serie televisive, coltiva i tratti più cupi e gotici di Dickens coniugandoli con gli ambienti minacciosi e al tempo stesso lirici alla Cormac McCarthy e soprattutto aggredisce i lettori con il ritmo brusco e sincopato dei film di azione e dei neo-western alla Quentin Tarantino, per concedersi qua e là, con studiato tempismo, a slanci poetici declinati in una lingua rurale alla Seamus Heaney: ruvida e allo stesso tempo elegiaca. L’eterogeneità degli spunti messi in scena, non sottrae mai la narrazione all’individualità di una voce fresca, dinamica e sicura, sempre più riconoscibile man a mano che si procede nella lettura e ci si addentra in un universo narrativo condensato attorno alle immagini piuttosto che intorno a parole e citazioni.

SOLLECITATO dall’incalzare della trama, il lettore sperimenta la compulsività che prima o poi si impossessa dei fruitori delle serie prodotte da Netflix o Hbo, soprattutto laddove le virtù affabulatrici di Lynch si traducono in allerta visiva rispetto a personaggi e azioni agitate sullo sfondo di ambienti tratteggiati alla maniera di un’inquadratura proiettata su uno schermo.
Stimato critico cinematografico, l’autore irlandese presenta luoghi e espressioni dei volti, sentimenti e paesaggi come se assecondasse gli spostamenti e le zoomate di una camera da presa: «Avete figli anche voi?, gli chiese. Sì, una bambina. Coyle alzò una mano, come per dare un’idea dell’altezza della sua bimba».

Senz’altro, Lynch ha corso qualche rischio nell’elaborare una forma espressiva così aderente all’esperienza visiva, ma la reazione della critica sembra testimoniare che questo non è avvenuto a discapito del valore letterario del romanzo. È evidente, piuttosto, come un simile stile abbia posto difficoltà di traduzione tutt’altro che banali, e molte delle scelte di Michelucci sembrano ispirate a una ragionevole sobrietà sintattica, mai del tutto normalizzante rispetto all’ordito spregiudicato della sequenza originale e comunque capace di trasferirne l’energia drammatica nella versione italiana.

È SOPRATTUTTO NEL LESSICO che Michelucci ha accolto la sfida di Lynch, giocando le sue carte con audacia, e consegnandoci sinestesie memorabili e plastiche associazioni di parole nel descrivere quanto accade al protagonista, un povero diavolo braccato di nome Coll Coyle, del quale si racconta la fuga rocambolesca dai feroci aguzzini del proprietario terriero da lui ucciso, dopo avere subito anni di angherie e di mortificazioni.

DOPO L’INCIPIT ambientato in un’Irlanda atroce e al tempo stesso bucolica, e una seconda parte relativa alla traversata dell’Oceano in condizioni disumane – lungo una traiettoria percorsa negli ultimi due secoli da milioni di irlandesi e ripresa con la diaspora di molti coetanei di Lynch in seguito al crollo dell’economia – il libro conosce il suo epilogo negli Stati Uniti, dove Coyle lavorerà assieme ad altri migranti scavando le colline attorno a Philadelphia per posarvi un tratto nuovo di ferrovia.

Emigrazione, pregiudizi razziali, arroganza degli aristocratici introiettata dai loro sgherri, indigenza dei contadini in Irlanda e degli operai in America contribuiscono a formare lo sfondo sociale del romanzo, che si chiude sul riferimento a un orrendo fatto di cronaca del 1832, il cosiddetto Duffy’s Cut. La prosa di Lynch esibisce persino una certa spigliatezza nei confronti della plausibilità, specialmente quando insiste su personaggi malvagi oltre ogni limite e dotati di un intuito animalesco, quasi sovrannaturale.

ALTRETTANTO BRUTALE è la forza della disperazione con cui Coyle sopravvive alle violenze degli uomini e della natura, malgrado la sua fuga si trasformi presto nella ricerca di un irrealizzabile angolo di pace, dove poter essere padre affettuoso dei propri figli. Di riflesso, dalle pagine del romanzo di Lynch emerge una riflessione accorata e stringente sul destino e la natura degli animali umani, sospesi fra la dolcezza e la solidarietà degli affetti e la ferocia delle relazioni fra sconosciuti, fra la nostalgia di una dimensione arcadica e il cinismo delle dinamiche interne a ogni principio di sfruttamento economico.