Così la Mostra di Venezia è cominciata, ma il cinema si è visto solo ieri con la presentazione del film di Don Siegel autoprodotto dal cineasta, ma appoggiato alla grande distribuzione Paramount.
Non è una novità per Don Siegel che, ex archivista, acculturato in Europa, aveva cominciato a dirigere nel dopoguerra secchissimi «neri» di serie B. Ma dal lungo sodalizio con Clint Eastwood (che ha anche incoraggiato a diventare cineasta e ha fatto benissimo) sono arrivati i successi commerciali e quindi l’irrigidimento dei critici che quando sentono puzza di soldi annaspano: non c’è arte, poesia fuoriuscita dagli «stereotipi».

Fuga da Alcatraz, filone evasioni, genere carcerario, è un film perfetto e non freddo, è pieno di tutti i luoghi comuni delle storie da penitenziario, sia narrativi che strutturali: il direttore sadico, gli «appuntati» stupidi, la sala mensa dove si covano piani di fuga, la gerarchia fra detenuti, le celle buie di punizione, il suspense dell’evasione, i ritmi agghiaccianti del rituale segregativo, anche chi ha una piccola esperienza di galera sa che non sono banalità ma verità vera. Chi non ce l’ha ancora, dopo il film saprà come comportarsi. Il luogo concentrazionario scelto è il supercarcere dell’isola di Alcatraz, luogo nebbioso di fronte a San Francisco, California. La roccia maledetta dove Al Capone divenne pazzo perché il regolamento che farebbe gioire molti carcerieri nostrani, imponeva il silenzio assoluto.

Siegel è tornato proprio in quei ruderi per sette mesi girando preferibilmente di notte per non disturbare i turisti (Alcatraz è diventato un monumento della bestialità umana), riportando la luce nelle celle, facendo rivivere l’unica pagina gloriosa della sua storia, il solo tentativo di fuga riuscito. Dopo questo scacco tutti i supercarceri furono perfezionati.

Clint Eastwood, passato misterioso, senza famiglia, reati non specificati, unica connotazione la «pratica della fuga» arriva lì incatenato di notte. Visita medica e umiliazione della passeggiata fino alla cella nudo come un uccellino in gabbia. Clint trasforma questo ingresso in una sfilata da star. Siegel che non ama troppo le donne non è un macho: gareggia con loro creando personaggi maschili affascinanti, anche erotici.

Sappiamo già che Clint ce la farà, tutti i suoi passi sono precisi, non sbaglia una mossa, si fa valere con i rompicoglioni, conosce le persone giuste, quelli rimasti ancora vivi: un nero meraviglioso, colpevole solo di aver ucciso due bianchi; un pittore che si accetterà le dita quando il capo gli porterà via i pennelli, un ladro di macchine che quando scatterà l’ora X avrà un tragico momento di indecisione.

Non ci sono sbagli per tutto il film, giochini formali, lentezze, ma neppure saccenza di perfezione, stile arido. Nei film europei è già tanto se una battuta di dialogo corrisponda anche lontanamente all’espressione del viso. Clint dice una battuta, ma con il viso ne pensa altre dieci. E le capiamo tutte.

Quello che Siegel ha in mente è di cancellare dal ricordo di tutta l’umanità il filantropico film L’uomo di Alcatraz con Burt Lancaster nella parte dell’uomo-uccello, Robert Stroud in quello che si riabilitò «a bottega». Nella fuga non c’è niente e nessuno da riabilitare. È finalmente un vero e proprio film d’evasione.
Tutti gli spettatori intelligenti conoscono cosa vuol dire «rapporto di forza», ma solo pochi registi, solo americani li mettono in scena come stupendi incontri di boxe, nel ring aperto e complesso della metropoli del capitale. Aldrich con la Sporca ultima meta aveva insegnato, in un’epoca di compromesso, la dignità «cattiva» di scegliere con chiarezza il proprio campo. La storia prosegue con questo Siegel: chi ha scelto di schierarsi con chi non è forte nel breve periodo, giocherà più duro nel medio. Altro che riflusso.

(30 agosto 1979)