Sono lettere d’amore, fra recriminazioni e riconciliazioni, quelle che per un ventennio solcano le vite di Ingeborg Bachmann, poetessa fra le più ammirate del Novecento, e di Hans Werner Henze, protagonista della scena musicale contemporanea, che fra i molti meriti annovera quello di aver dato vita nel 1976 al Cantiere di Montepulciano, esperienza artistica più che festival in senso stretto.

BACHMANN e Henze, segnati dalla nascita quasi in contemporanea nel 1926 (lei morirà nel 1973 orribilmente ustionata dalla scintilla di una sigaretta che avvolse la sua vestaglia, lui le sopravviverà fino al 2012) si incontrarono nel 1952. E fu attrazione fatale, potente e dolente: omosessuale Henze, che pure le proporrà di sposarlo, una ragnatela di cicatrici di amori sbagliati Bachmann (le più profonde, Max Frisch e Paul Celan). Da quel carteggio, parzialmente uscito da Edt nel 2008 a cura di Hans Holler, frusciante di irrisolte attese e dolorose sconfitte, spesso affacciato sui panorami di un Belpaese a fare da eremo e buen retiro, Marco Tullio Giordana ha tratto una rarefatta partitura, una Fuga a tre voci che ha chiuso il Cantiere 2020, il numero 45.

Sul palcoscenico del Poliziano, immerso nella penombra, come evocati da notturna quiete, Michela Cescon e Alessio Boni sono latori e destinatari, docili e trafelati, di questo scambio epistolare, testimone di un male di vivere che teatralmente si insinua fra le schegge sonore dello stesso Henze eseguite alla chitarra da Giacomo Palazzesi. Le parole sono complici, rimbalzano vivide, a volte si confondono, trattenute dal rimorso. Più morbida lei, più sanguigno lui. Che quella morte assurda vivrà per sempre come una condanna.