Ferrovie dello Stato c’è, ma rischia di essere l’unica. L’operazione di salvataggio di Alitalia lanciata dal governo ha il primo punto fermo. Dopo una due giorni di discussione il consiglio di amministrazione di Fs ha deliberato in serata di presentare l’offerta per l’acquisto di Alitalia, che arriverà oggi.
Lo strumento tecnico è « l’acquisto dei rami d’azienda delle società Alitalia-Società Aerea Italiana e Alitalia Cityliner». L’eborso previsto dovrebbe essere di circa 100 milioni.
Chiaro dunque l’intento di creare una newco per rilanciare la compagnia e – allo stesso tempo – di mantenere una bad company in cui lasciare debiti e – si spera – non anche ipotetici lavoratori in esubero, come si paventa da più parti.
L’ad Gianfranco Battisti, manager interno promosso da M5s e Lega per sostituire il renziano Mazzoncini (rinviato a giudizio per truffa a giugno) ha sudato le classiche sette camicie per convincere il Tesoro (unico socio di Fs) a intraprendere l’impresa di diventare il primo caso al mondo di azienda di treni che si butta nel trasporto aereo.
Per farlo ha dovuto mettere paletti precisi che già ieri sembravano aver sbarrato la strada all’idea lanciata dal vicepremier Di Maio e dal collega Toninelli. Fs condiziona la propria offerta al coinvolgimento, nella fase successiva ma entro l’anno), di altri partner: una compagnia aerea straniera e altre società pubbliche (sono circolati i nomi di Leonardo e di Eni) insieme alle quali detenere una quota che si ipotizza compresa tra il 51% e il 60%, confermando dunque l’idea di nazionalizzazione dell’ex compagnia di bandiera, espressione che quindi tornerebbe in voga.
Su entrambi i fronti Battisti ha già ricevuto più di uno stop, alcuni anche imbarazzanti.
Leonardo, l’ex Finmeccanica che ormai è un’azienda totalmente concentrata sul settore difesa, «non ha né prevedere alcun ruolo sul dossier Alitalia», fanno sapere fonti di piazza Monte Grappa. Anche Eni – azienda chiamata in causa come fornitrice di carburante quasi in esclusiva per Alitalia – smentisce l’ipotesi di un proprio ingresso nella compagnia.
Ma la reazione più dura viene da quella Cassa Depositi e Prestiti che dovrebbe finanziare maggiormente il progetto, specie con un ruolo di rinnovo della flotta. Il «niet» esplicito arriva dalle Fondazioni bancarie che detengono il 15,9% del capitale: «L’ho detto e ripeto, è diventato un ritornello e sul punto siamo rigidissimi, in Alitalia Cdp non deve mettere un euro per nessuna ragione», tuona il presidente dell’Acri Giuseppe Guzzetti.
Sul fronte «parter internazionale» le cose non vanno meglio. Se qualcuno avesse ancora dei dubbi sulla volontà di Lufthansa di entrare in una Alitalia non ristrutturata – la cifra di esuberi stimati dai tedeschi è sempre stata di almeno 4mila unità sugli 11mila attuali – ieri l’ad Carsten Spohr nella conference call sui risultati trimestrali ha ribadito: «una partnership con Alitalia è ancora possibile» ma «sicuramente non saremo interessati ad essere co-investitori con il governo in una compagnia che ha bisogno di essere ristrutturata».
A meno di non voler mettere mano alle forbici e tagliare più di un terzo dei dipendenti, Di Maio deve rivolgersi a Delta Airlines o EasyJet, mentre la pista cinese sondata dal sottosegretario al Mise Michele Geraci. Gli americani di Delta – già partner di Alitalia – sarebbero interessati ma non vuole investire mentre anche la low cost inglese EasyJet è sulla linea Lufthansa: è interessata ad un’azienda «ristrutturata».
Sulla partita pesa anche il nodo della restituzione del prestito ponte: 900 milioni più interessi (1 miliardo totale) che va rimborsato entro il 15 dicembre. Intanto cresce la preoccupazione dei sindacati con la Cgil che chiede urgentemente al Mise la convocazione del tavolo permanente promesso nell’incontro del 12 ottobre. In questo quadro diventa incerto anche l’esito dell’incontro di oggi sulla cigs al ministero del lavoro: azienda e sindacati devono trovare un accordo su altri 5 mesi di «cassa» per 1.570 dipendenti. Non un buon viatico per la «nazionalizzazione».