Quando Vanessa Bell si trovò tra le mani, ancor prima che venisse pubblicato, il libro che Virginia Woolf aveva scritto sulla vita dell’amico Roger Fry, non poté che ammirarne il risultato: «me lo hai ridato», scriveva alla sorella nel marzo 1940. Fry (1866-1934) era scomparso da soli sei anni, lasciando Bloomsbury nell’incredulità dolorosa della perdita. Se Virginia Woolf non avesse deciso, dopo molte resistenze, di mettersi all’opera per scrivere la biografia dell’amico, forse il nome di Fry sarebbe ancor oggi noto solo a un gruppetto di specialisti.
Fry fu una di quelle personalità impossibile da imbrigliare sotto un’unica e sola etichetta. Pittore? Certo, ma non solo. Critico? Assolutamente, ma non in modo esclusivo. Art historian? Senz’ombra di dubbio, ma senza prendere partito in modo netto. In un caleidoscopio di interessi, curiosità, filoni di studi, tutti corrispondenti a una altrettanto estesa e multiforme serie di pubblicazioni, è difficile scegliere di ‘quale’ Fry parlare. Indubbiamente, un grande peso lo hanno avuto la sua attività e i suoi scritti per le mostre dedicate alla pittura francese che, alla Grafton Gallery negli anni dieci, dischiusero al pubblico londinese le ultime novità che arrivavano da Parigi. La stessa definizione di quella pittura come «Post-Impressionista» – etichetta che usiamo ancora oggi – si deve proprio a Fry.
L’antologia di Reed
In questo modo, è stata indubbiamente la sua attività come sostenitore dell’arte a lui contemporanea che ha fatto conoscere Fry a un pubblico più ampio e che lo ha identificato, tout court, con quel particolare movimento. Eppure, il sostenitore del modernismo, lo strenuo formalista che ispirava le satire di Henry Tonks, è solo uno dei volti di Roger Fry. Già dalla lettura della biografia di Virginia Woolf si può avere qualche elemento utile per cogliere questa complessità, questo intrecciarsi di piani e interessi. Poi ci sono state le ricerche di Frances Spalding, che nel 1980 pubblicò una ricca biografia. Infine, nel 1996, Christopher Reed dava alle stampe la bellissima antologia di testi di Fry (A Roger Fry Reader, una vera miniera), che riuniva una larga scelta di testi consacrati all’impegno modernista – dalle introduzioni alle mostre post-impressioniste del 1910 e del 1912, ad alcuni scritti sui musei e sulle istituzioni, sino al saggio sulla lingua dell’arte (Words wanted in connexion with art, 1928).
Eppure, una larga parte dell’attività di Fry come pubblicista e conferenziere fu dedicata all’arte italiana. Uno dei suoi saggi più famosi e giustamente celebrati, Giotto (1990-’01), incluso nella raccolta Vision and Design (1920) e riproposto in Italia anche di recente per le cure di Laura Cavazzini, colpisce per l’assoluta lucidità e la perspicuità descrittiva. Ma quella è solamente la punta dell’iceberg. Il rapporto lungo, duraturo e per molti aspetti davvero fondamentale di Fry con l’arte italiana è rimasto, in certo senso, in ombra.
Il nuovo libro di Caroline Elam, Roger Fry and Italian Art (Ad Ilissvm + The Burlington Magazine, pp. 452, 250 ill., £ 100.00), offre adesso la migliore carta geografica per navigare in quel continente complesso e in parte ancora da scoprire. L’autrice ha dedicato le sue instancabili energie per ritessere le fila dei molti legami che lo studioso inglese intratteneva con l’arte italiana. Ed è significativo che il volume sia pubblicato da Paul Hoberton in associazione col «Burlington Magazine», la storica rivista inglese di storia dell’arte, che con questo volume inaugura un’attività editoriale come vera e propria casa editrice. L’autrice, per molti anni, è stata editor in chief della prestigiosa testata; e lo stesso Fry l’aveva diretta al principio del Novecento.
È bene specificare da subito che il volume non è una vera e propria biografia. Le biografie di Fry esistono – e sono ottime. Elam, dunque, ha costruito un progetto diverso e, in parte, molto più ambizioso. L’Italian art del titolo è quella dei cosiddetti ‘primitivi’, cioè gli artisti del Tre e del Quattrocento italiani, cui Fry dedicò molte delle sue energie. I sette capitoli che compongono la prima parte del volume costituiscono un saggio, di taglio interpretativo, che ricapitola e mette in fila gli eventi: lì sta la ‘cornice’ che definisce il perimetro in cui inserire l’attività di Fry e i suoi interessi, lo sfondo culturale nel quale ricollocarli. E dunque, ad esempio, ampio spazio è dedicato al rapporto tra lo studioso e i suoi contemporanei – Berenson su tutti, ma anche gli studiosi della generazione precedente, come Joseph Crowe e Giovan Battista Cavalcaselle – nelle questioni legate allo studio e all’apprezzamento dei primitivi fiorentini. Oppure è ricostruito il coinvolgimento di Fry nelle vicende della fondazione (1903) e dei primi tumultuosi anni, appunto, del «Burlington Magazine».
Attraverso quest’analisi emerge tutta la centralità della sua figura, la capacità di assimilare un modo di guardare alle opere d’arte piuttosto nuovo e di rifonderlo in scritti di grandissima lucidità e tensione. Una delle grandi acquisizioni di Fry consistette nell’apprezzamento dei cosiddetti ‘primitivi’: dal suo punto di vista era frutto di un’incomprensione epocale pensare che il progressivo impadronirsi della rappresentazione naturalistica implicasse necessariamente un progresso artistico. È proprio nei primitivi italiani che egli ha modo di trovare quegli aspetti che, negli anni successivi, lo aiuteranno a comprendere le semplificazioni formali di Cézanne o di Gauguin. All’apice della sua ‘svolta’ verso il formalismo, negli anni attorno al 1912, Fry si sforzò di sostanziare anche la sua lingua con parole e categorie appropriate: tutto il sesto capitolo del libro offre una bella analisi dei princìpi estetici e del linguaggio dello studioso.
Ma è, forse, la seconda parte del volume quella che rivela le maggiori sorprese. In essa, infatti, Caroline Elam ha raccolto una ricca antologia di testi di Fry – qualcuno edito, ma molti, e ricchissimi, sono gli inediti. Divisa in quattro sezioni tematiche (The Trecento; Quattrocento Art in Central Italy; Early Venetian and North Italian; The Cinquecento and After), presenta testi scalati in un arco cronologico che abbraccia il primo trentennio del Novecento. Ciascuna sezione e ciascun testo sono accompagnati da preziose introduzioni che aiutano il lettore a situarli tanto nel percorso dello studioso quanto nel più ampio panorama degli studi.
Alcuni di questi testi sono le lezioni che Fry teneva per il Cambridge University Extension Movement o le sue Slade lectures all’Università di Londra. Altri sono articoli che aveva pubblicato sulle pagine del «Burlington Magazine» o sul «Bulletin» del Metropolitan Museum di New York negli anni (1906-’10) in cui ricoprì il ruolo di adviser per il museo (gli anni americani di Fry sono analizzati nel terzo capitolo del volume). In tutti, ci si trova di fronte alle meravigliose qualità della scrittura di Fry: alla sua lucida precisione, alla sua serrata argomentazione. Una delle grandi sorprese di questo volume è la lunga lecture, in due parti, che Fry dedicò a Piero della Francesca nel 1901. Come sottolinea giustamente Elam nella sua introduzione, l’assoluta novità del saggio sta nell’aver definito, per la prima volta, la cornice della «moderna» interpretazione dell’artista.
La materialità delle opere
Nelle sue molte vite Fry fu anche pittore; e proprio da pittore, da artista, che conosce quindi la grammatica visiva e compositiva delle opere, si avvicinava a queste ultime. Era un aspetto, questo, scarsamente praticato all’epoca. Per Berenson o Morelli, ad esempio, la fattura materiale delle opere non aveva alcuna rilevanza. Al contrario, Fry riversò la sua conoscenza sia nelle analisi critiche che nei restauri, anche se questi ultimi non sempre felicemente risolti, come nel caso dei Trionfi di Andrea Mantegna.
Ma la ricchezza dei percorsi e delle idee di Fry mal si adattano a essere riassunti. Bisogna gettarsi nella lettura delle sue stupende pagine per averne un’idea efficace; operazione, questa, oggi assai facilitata dal bel libro di Caroline Elam.