Il balletto delle riforme istituzionali somiglia ogni giorno di più a una sgangherata danza di ubriachi: pretendere che chi non frequenta i palazzi ci capisca qualcosa sarebbe chiedere troppo e gli addetti ai lavori non hanno le idee molto più chiare. Nel solo campo del centrodestra si intrecciano e si confondo tanti di quei fili che dipanare la matassa è un’impresa, e ieri lo si è visto con precisione nitida.

A paralizzare per ore la commissione affari costituzionali del senato, costringendo governo e presidente Finocchiaro (che in questa vicenda continua a fare la figura della portaordini) sono state due tensioni distinte e per alcuni versi contrastanti: il malumore di Fi e lo sgambetto improvviso della Lega e dell’Ncd. Un problema serio, dal momento che proprio l’accordo con la Lega è il vero puntello della riforma.

Sono stati 23 i senatori forzisti che ieri hanno chiesto di rinviare l’incardinamento in aula della riforma. La stessa identica richiesta che avanzano, sui fronti opposti Sel, M5S e i dissidenti del Pd. Speranze in un accoglimento del rinvio non ce n’erano, e altrettanto scontato era il no alla modifica del termine di presentazione degli emendamenti proposto da Minzolini. Il pronunciamento serviva soprattutto a segnalare che l’ammutinamento non è rientrato, in vista della riunione dei senatori del pomeriggio e soprattutto di quella con Berlusconi, fissata per martedì prossimo. La ribellione non è sedata, ma quasi. Parola di Paolo Romani, capogruppo, e di Denis Verdini, massimo sponsor della riforma, uomo di raccordo tra Berlusconi e Renzi nonché, nella riunione del gruppo al senato di ieri, portavoce diretto dei voleri del capo.

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«La riunione è andata bene», tripudia il primo. «I 22 colleghi, 17 di Fi e 5 del Gal, volevano solo aspettare qualche giorno per portare in aula le riforme. Questi giorni ci sono stati e molti hanno già detto che nella riunione con Berlusconi si atterranno alla indicazione del partito». La quale, a scanso di sorprese, non verrà messa ai voti: «Non è nella nostra tradizione». Instancabile, Verdini prima interviene all’assemblea dei senatori e poi concede il bis, ripetendo il suo mantra, «il patto del Nazareno va rispettato». Poi si ritrova a quattr’occhi per un’oretta buona con Cinzia Bonfrisco, capofila con Minzolini dei reprobi, infine profetizza che «non ci sarà dissenso». O almeno sarà trascurabile: «Se uno ha 15 figli e solo uno non lo rispetta…». Anche Toti, pur riconoscendo che il dissenso resta, sfoggia ottimismo: «Non credo che inciderà sui numeri».

È giustificato tanto ottimismo? Solo in parte. L’assemblea di ieri pomeriggio, in realtà, è stato un nuovo sfogatoio, la conferma che ai senatori questa riforma proprio non piace. Il pressing però è impressionante, di dimensioni che poche volte si sono viste nella storia del partito azzurro. Berlusconi, dopo mesi di indecisione, è ora il più determinato di tutti. Quanto nella sua scelta pesino i tetti pubblicitari Mediaset e quanto la speranza che la paternità della patria gli dia una mano nel processo Ruby è oggetto di dibattito. Quanto invece c’azzecchino il senato della Repubblica e il corretto funzionamento delle istituzioni è invece pacifico: poco e niente. Dunque una parte del dissenso probabilmente rientrerà, ma difficilmente sarà tale da rendere irrilevante la resistenza dei senatori che non intendono mollare. La riforma alla fine passerà, ma in aula non sarà una passeggiata.
In commissione, però, l’ostacolo principale non è stato il socio del Nazareno ma i comprimari, la Lega e l’Ncd. Sono loro che hanno messo a rischio la riforma e costretto la coppia Boschi-Finocchiaro al rinvio. Ufficialmente c’era in ballo solo la norma sui criteri di elezione (anzi di «non elezione») dei senatori, che nella versione originaria praticamente escludevano o quasi dal senato prossimo venturo i padani e i pargoli di Alfano. In realtà, appena sotto pelle, è già partito il braccio di ferro non sul senatino di domani ma su quella che resterà l’unica vera camera. Lega e Ncd mirano a cambiamenti sostanziosi in quell’Italicum che Berlusconi vuole invece immutabile: hanno colto l’occasione per iniziare a far pesare le loro artiglierie. Né la faccenda si fermerà qui, perché Calderoli, pur soddisfatto per l’intesa raggiunta in commissione, anticipa che altre modifiche chiederà all’aula. Con un occhio sul senato e l’altro, quello che guarda più lontano, già fisso sulla partita della legge elettorale, di cui questa riforma è solo il prologo.