Per chi studia l’uso politico delle immagini nel basso Medioevo i due grandi Comuni toscani, Siena e Firenze, rappresentano i luoghi privilegiati della sperimentazione della mediazione visiva del potere. Tuttavia, se a Firenze il tessuto delle immagini politiche tra tardo Duecento e Trecento ci è giunto a brandelli, Siena conserva ancora, nelle sale del Palazzo Pubblico, una compagine decorativa d’immediata efficacia comunicativa
Orientamento politico filopapale
Ne costituisce il culmine il ciclo che Ambrogio Lorenzetti dipinse nel 1338 nell’aula consiliare del governo dei Nove – dal 1287 suprema magistratura di un regime popolare di mercanti ed esponenti del ceto medio della città di Siena, di orientamento politico filopapale –, ciclo impropriamente noto con il nome di Buongoverno. Sebbene le pitture coprano tre pareti della sala, Ambrogio dichiarò nella sua sottoscrizione di aver dipinto utrinque, ossia da ambo i lati. Con tale avverbio il maestro volle evidentemente riferirsi non all’impaginazione fisica degli affreschi, ma alla loro bipartizione concettuale. Infatti il ciclo propone un’alternativa fra i principî del buon governo, con i loro effetti benefici sulla vita sociale, e quelli opposti, con le loro conseguenze nefaste
Veicolo figurativo di tali concetti è l’allegoria, mirabilmente illustrata dalle iscrizioni di corredo che compongono una canzone in due segmenti simmetrici, ciascuno formato da due stanze e un congedo. Su due pareti trionfa la Giustizia, che – come sottolineano i versi – «là dove regge, induce ad unità li animi molti». In altre parole, dall’attuazione in terra della Giustizia divina, personificata da una figura in trono che mantiene in perfetto equilibrio i piatti di una bilancia sostenuta in alto dall’alata Sapientia, discende la concordia tra i cittadini, che – in virtù dell’erronea interpretazione dell’etimologia di questa parola da cum chorda piuttosto che da concors – sono rappresentati mentre si passano vicendevolmente una corda. Quest’ultima raggiunge un vegliardo in trono nelle vesti di giudice, che le scritte identificano al contempo come un’Allegoria del Comune di Siena e del Bene Comune, e che è circondato dalle Virtù cardinali e teologali. Dall’affermazione del Bene Comune – prosegue la canzone – «séguita poi ogni civile effetto, utile, necessario e di diletto». Le sue ricadute positive in città sono illustrate dall’intenso fervore edilizio, analogo a quello che Siena stava conoscendo sotto il regime dei Nove, dalla fioritura del commercio e delle attività produttive, nonché da giochi e danze; nella campagna del contado prosperano i lavori agricoli e la caccia.
Al Bene Comune si oppone, sulla terza parete, Tyrannides, ammantata di porpora, che sorregge un calice d’oro e sormonta un caprone, simbolo di lussuria. Il suo aspetto rievoca la personificazione apocalittica di Babilonia, città infernale. A Tyrannides si affianca una sequenza di Vizi, mentre ai suoi piedi giace legata la figura della Giustizia. I suoi effetti esiziali sono rappresentati in una città semidistrutta e oggetto di vandalismi, nella quale proliferano le rapine e le violenze e l’unica attività redditizia è quella di una bottega di un fabbro intento a forgiare armi. Come ammonisce la canzone, «per voler el ben propio, in questa terra sommess’è la giustizia a tyrannia, unde per questa via non passa alcun senza dubbio di morte, che fuor si robba e dentro da le porte». Ancor più perniciosi sono gli esiti nella campagna; che appare incolta e abbandonata, attraversata da truppe armate e punteggiata da villaggi dati alle fiamme e da edifici in rovina.
L’impatto visivo di queste pitture, che – come informa una cronaca anonima – potevano essere osservate da un pubblico ampio già nel quattordicesimo secolo, è precocemente documentato. Infatti, nel 1425 Bernardino da Siena elogiò in una sua predica la «bellissima inventiva» del ciclo, conosciuto in quel tempo con il titolo de «La Pace e la Guerra», che visualizzava a perfezione i contenuti di un suo sermone. Un quarto di secolo più tardi Lorenzo Ghiberti ammirò profondamente quest’opera nei suoi Commentarii e lodò il suo artefice come «famosissimo e singularissimo maestro», «nobilissimo componitore», «huomo di grande ingegno», «nobilissimo disegnatore», «altrimenti dotto che nessuno degli altri».
A questo ciclo Chiara Frugoni, che nel 1983 ne offrì una prima lettura come veicolo e teste del «credo politico» del governo dei Nove, dedica una nuova monografia dal titolo accattivante (Paradiso vista Inferno Buon governo e Tirannide nel Medioevo di Ambrogio Lorenzetti, Il Mulino, «Grandi illustrati», pp 344, euro 32,30). Il libro è l’esito di nuove ricerche, ma non rinuncia a quella inclinazione discorsiva e a quella chiarezza espositiva che rendono ciascun testo della Frugoni anche un felice esperimento di alta divulgazione. In tal modo il Buongoverno, di cui sono peraltro discusse e confutate alcune interpretazioni tendenziose pubblicate negli ultimi anni, viene analizzato approfonditamente con un linguaggio comprensibile anche per un pubblico privo di competenze specialistiche e con il ricorso a un amplissimo apparato illustrativo.
Viene scritto lo Statuto della città
Il pregio maggiore del libro risiede nel tentativo di ricontestualizzare il Buongoverno nel milieu storico-politico della Siena di quel tempo. Ambrogio Lorenzetti tradusse figurativamente i principi che ispiravano la politica novesca proprio mentre era in fase di redazione lo Statuto della città – detto «del Buongoverno» – a cura di una commissione di esperti di diritto. Queste iniziative furono portate avanti in una congiuntura difficile, contraddistinta dal malcontento diffuso per la corruzione e la chiusura politica dei Nove, le lotte tra i casati magnatizi, l’aumento delle spese militari e, soprattutto, del debito pubblico, la proliferazione dell’usura e la crescente sperequazione sociale. In una situazione così avversa il ciclo dovette essere concepito per presentare l’utopia di una società operosa e unita, all’interno di una città retta dall’idea del bene comune in opposizione alla faziosità e agli interessi di parte; e per offrire ai senesi l’opportunità di rispecchiarsi nel migliore dei governi possibili.
È rimarchevole il tentativo intrapreso dalla studiosa di interpretare tutti gli episodi ‘minori’, solitamente trascurati e non sempre in buone condizioni di conservazione, degli effetti del buono e del cattivo governo in città e in campagna. È questo il caso di un uomo afferrato da un assalitore e affiancato da un uomo barbuto, che si vede obbligato a consegnare i suoi oggetti preziosi nascosti sotto la veste; o di tre uomini intenti verosimilmente al gioco dei dadi; o, ancora, degli strumenti disposti sul desco della bottega dell’orefice, parzialmente obliterati da una lacuna dell’intonaco, tra i quali Chiara Frugoni individua una scatola di pesi rettangolari per monete. Ugualmente interessante è l’interpretazione dei diversi passaggi del ciclo di lavorazione della lana, che sono raffigurati in una bottega situata a ridosso delle mura cittadine. In breve, il libro restituisce in ogni singolo dettaglio questo straordinario manifesto politico, il cui messaggio è di perenne attualità.