Il titolo del nuovo spettacolo della compagnia Frosini/Timpano è composto da un solo numero, Ottantanove, che però ha in realtà due facce. Sta lì ad indicare sia il 1789 che il 1989, due date epocali poste come termini di un viaggio nel contempo personale e politico. Se negli scorsi anni, con la trilogia di spettacoli Storia cadaverica d’Italia, i due autori/registi/interpreti si erano occupati propriamente di cadaveri – quello di Mussolini, di Mazzini, di Moro – questa volta la dissezione è metaforica e riguarda la mitologia della rivoluzione francese. Allo stesso modo però, lo spirito rivoluzionario non sembra essere rimasto in vita e in un gioco di rifrazioni è l’attualità, come viene vista e vissuta da Elvira Frosini e Daniele Timpano, ad essere al centro della scena. Nelle parole di quest’ultimo: «Siamo ancora abbastanza intrisi di ‘900 per sentire il fascino retrò di alcuni concetti a cui si accompagna la disillusione, la rabbia, lo stallo e la frustrazione per la situazione attuale».

Critici della cultura attraverso il teatro, lo spirito dissacratorio e ironico come martello, il lavoro del duo romano si può sintetizzare nel detto «mal comune, mezzo gaudio»: i momenti traumatici della nostra storia vengono esposti, smitizzati e messi alla berlina per dar vita ad una sorta di terapia condivisa. In Ottantanove saranno per la prima volta in tre sul palcoscenico, con l’arrivo di Marco Cavalcoli. Lo spettacolo, che ha vinto la menzione speciale al Premio Riccione per il Teatro prima ancora di prendere vita sulla scena, doveva essere presentato nel cartellone di Romaeuropa Festival in corealizzazione con il Teatro di Roma il 28 ottobre e poi al Teatro Fabbricone – Metastasio di Prato, a cui si deve la produzione, dal 4 novembre – un programma purtroppo mutato all’improvviso dalle nuove restrizioni.

Il vostro lavoro è sempre stato incentrato su momenti storici significativi e «Ottantanove» non fa eccezione. C’è stata un’evoluzione nello sguardo su questi temi?
Frosini: Le motivazioni che ci spingono sono le stesse, affrontiamo temi storici con un’interesse per il presente. Vogliamo parlare di noi, del nostro Paese e del nostro mondo, nel caso di questo spettacolo guarderemo soprattutto all’Occidente e all’Europa. Scaviamo nella storia perché è attraverso i materiali che l’hanno costruita e il modo in cui è stata manipolata che si forma il nostro pensiero.

Timpano: Negli anni qualcosa è cambiato sicuramente, in questo lavoro in particolare mi sembra che ci sia una spinta centrifuga. Quindici anni fa, in Dux in scatola ad esempio, i materiali studiati convergevano poi intorno ad una storia ancora narrativa, in quel caso si trattava della vicenda del cadavere di Mussolini dalla morte fino alla sepoltura. Il viaggio che facciamo attraverso questi testi letterari, storici e teatrali, che per Ottantanove spaziano dal ‘700 ad oggi, è sempre più un percorso di formazione. Attraversiamo linguaggi e registri molto diversi ma accomunati da un sentire attuale, riecheggiano con noi perché il ‘700 è l’infanzia della nostra modernità.

In questo spettacolo parlate di rivoluzione come di un tema onnipresente nella società ma ormai completamente svuotato di senso. Ne emerge una riflessione sulla retorica politica e su alcune pratiche che si sono perse?
Frosini: Rivoluzione è una parola affascinante ma ora sembra non praticabile, è fuori dall’orizzonte attuale. Questo mondo che si è aperto nel 1989 in realtà non prevede alcun orizzonte, alla mitologia del progresso si è sostituita quella della catastrofe. C’è anche uno svuotamento della parola politica che corrisponde alla fine delle ideologie, parliamo di questo svuotamento e della rivoluzione come di un fantasma.

L’immaginario italiano è stato quasi sempre al centro dei vostri testi, stavolta invece partirete da quello francese. Com’è concepito il rapporto tra Italia e Francia?
Frosini: Il testo è stato scritto in parte in due residenze all’Istituto italiano di cultura a Parigi. È vero che l’orizzonte si allarga, parliamo dell’Europa e della Francia ma da italiani, siamo consapevoli del nostro sguardo. Gli italiani non hanno fatto la rivoluzione francese, l’hanno in parte accolta e in parte subita, nell’ambito di un rapporto ambiguo e controverso.

Sarete per la prima volta tre interpreti, con l’arrivo di Marco Cavalcoli sulla scena. Da cosa è nato questo ampliamento?
Cavalcoli: Forse non è un caso che l’ampliamento arrivi con questo spettacolo e con questo argomento, di portata globale e internazionale. Le domande che da sempre Elvira e Daniele si pongono in questo testo deflagrano, può darsi che sia per questo che hanno sentito il bisogno di rimescolare le carte per dar vita ad un’articolazione plurale e più complessa.