«Pensa come si sentivano loro, non solo a essere fotografati, ma a essere fotografati da una donna. Ho solo uno scatto più fermo: non per la paura, ma perché questi boss davano una sensazione di potere crudele, e tu li stavi sfidando».
In un bianco e nero di Luciano Liggio in un aula di tribunale, una luce affiora violenta dal suo sguardo, dalla mano minacciosa verso chi lo ritrae, verso chi guarda: in questo tragico faccia a faccia, in cui noi – come avviene nella fotografia – non vediamo il viso di Letizia Battaglia, la sua interlocutrice, ma grazie al suo racconto ne conosciamo il sentire in fuoricampo, vi è uno dei nodi pulsanti di Shooting The Mafia dell’inglese Kim Longinotto, opera tra le più avvincenti «creature di confine» del 33esimo Festival Mix Milano di Cinema Gaylesbico e Queer Culture, chiusura domani sotto la guida di Andrea Ferrari, Debora Guma e Rafael Maniglia.

IN REALTA’, dove il titolo del film indaga su come la fotografia possa relazionarsi alla mafia, tra abissi psicologici e pericoli per chi quelle foto agisce in prima persona – nonché conseguenze che quel disvelamento fotografico produce sulla mafia stessa – cruciale si rivela il nucleo di genere, cioè il fatto che sia una donna del luogo, su cui gravano vite di antenate scavate da infinite sopraffazioni maschili, a fronteggiare col suo sguardo incoercibile la mafia, come massima espressione e degenerazione del sistema patriarcale.
Data questa dimensione collettiva antropologica, Shooting The Mafia, muove però in primis dalla soggettività biografica, e autobiografica, di Letizia Battaglia: 50 anni da fotografa e politica a Palermo, la sua città amata, dove nasce nel ’34 e con cui dialoga senza mai lasciarla, malgrado la tentazione. Dico «autobiografica» perché il film si gioca in quel confine liquido tra l’affido e forse il desiderio, tenero da parte di lei, di abbandonarsi alla regista, e l’abitudine a guidare una storia personale e comune: corpo di donna che fa dell’età una forza, col suo caschetto di «Sansona», ora biondo, ora rosso, ora fucsia.
Perché Letizia Battaglia non è solo dietro la macchina fotografica, è anche ritratta. Così, una delle tre fonti d’archivio – ricca la linfa footage del doc – è proprio il suo privato (col corpus delle foto d’autrice e il repertorio storico anni ‘50/2000). A Longinotto, Battaglia consegna l’immagine di se stessa bambina, felice prima che l’ombra dell’oppressione familiare si abbatta su di lei, costretta dal padre a non uscire più dopo aver visto un maniaco per strada. È allora che la sua energia comincia a spezzarsi e che si illude, dopo gli anni dalle suore, di ritrovare a 16 anni la libertà nel matrimonio; quindi, dopo la nascita delle figlie e il desiderio di lavorare negato, il buio delle cure in Svizzera, Letizia ventenne sorride ignara in un video anni ’50: come tantissime donne di allora, come quelle che avrebbe fotografato, Madonne nella stanza miserrima colma di figli, col più piccolo in braccio o quasi morte a letto, i bambini che guardano in macchina.

ALLORA si compie il suo film anni ’50, Battaglia come Silvana Mangano in Anna di Lattuada, tra il destino di suora, causa femminilità reclusa, e l’irrompere della danza di El Negro Zumbòn che conquisterà il mondo (e Nanni Moretti), Letizia libera e sensuale che rivolge la sua ricerca verso gli uomini, perché desidera e non si accontenta.
Dalla separazione dal marito si schiude per lei, con l’inizio della collaborazione con L’Ora e l’incontro con la fotografia, quale via «per essere veramente persona», la sua seconda vita a 40 anni, intreccio indissolubile di scatti e amori – rivissuti oggi negli incontri emozionanti con Santi Celeca e Franco Zecchini, fotografi, solo anagraficamente più giovani -.
In tutto questo la Palermo anni ‘80 e ‘90, le Giuliette della polizia, le corse sul luogo dell’omicidio (anche 5 in un giorno), foto con cadavere e ulivo, e quelle delle donne addolorate, di un bambino con calza sul volto e pistola, e uscire col pensiero che ti sparano, e i funerali mafiosi dove ti identificano, e l’adorato Falcone che non vuole farsi fotografare in posa, e il Maxi Processo e Capaci, «non volevo fotografarlo ammazzato», e la foto di Rosaria Costa moglie di Vito Schifani, poi Paolo Borsellino…
Allora, a volte, la Storia prende il sopravvento, e il film si squilibra, ma non esiste grande e piccola Storia, e Battaglia, diventa più vicina dove la parola manca e fa cenno che basta, come dire del rapporto madre figlia? del dolore delle foto non fatte? come spiegare ai parenti che ha fotografato per amore, il voler bruciare l’archivio? Perché dopo tutto questo orrore non si può essere felici, ma si può essere libere, oltre la paura, e nella forza di un amore inaspettato per Roberto Timperi, che ama fotografare i trans. In un festival di sguardi e linguaggi moltiplicati, mi piace chiudere con Rafiki («amica» in swahili) di Wanuri Kahiu – film bandito in Kenya – qui l’attrazione tra Kena e Ziki, giovani figlie di due rivali politici, trova, grazie anche alla squisita poesia delle attrici, Samantha Mugatsia e Sheila Munyiva, nel loro solidale e invincibile avvicinamento anche in un luogo oscurantista e violento verso le coppie omosessuali, un magnifico germoglio di futuro.