Già prima di affermare l’«incompatibilità» tra la religione musulmana e la Costituzione della Repubblica, Matteo Salvini aveva tirato in ballo l’argomento per rettificare, almeno a prima vista, le parole sconvolgenti del candidato leghista alla Regione Lombardia, Attilio Fontana. Dopo che quest’ultimo, dai microfoni di Radio Padania, aveva definito tout court gli immigrati come una minaccia per la sopravvivenza della «razza bianca», il leader del Carroccio si era detto convinto che, in realtà, l’ex sindaco di Varese volesse denunciare «l’invasione» migratoria e la sua prima conseguenza: il rischio di una «islamizzazione del Paese». Per questa via, e non per il colore della pelle di chi arriva, si esprimerebbe il pericolo maggiore: «Siamo sotto attacco, sono a rischio la nostra cultura, società, tradizioni, modi di vivere».

Il significato implicito della “rettifica” di Salvini è evidente: per chi si candida a rappresentare lo spazio politico dell’identità, della xenofobia, di ciò che resta della destra nazionale, nonché del nuovo neofascismo in via di sdoganamento, l’accento un tempo posto sulla nozione di «razza» va riposizionato su quella di «cultura». In questa banalizzazione propagandistica della lezione differenzialista e all’insegna di un razzismo «culturalista» della Nouvelle Droite francese e dei suoi epigoni nostrani, resta dominante il terrore per l’incontro, la contaminazione, il meticciato. Una visione secondo la quale ciò che un tempo minacciava il sangue e le «etnie», oggi lambisce pericolosamente le menti e le civiltà.

Non a caso è proprio il filo nero dell’islamofobia ad indicare la continuità del ruolo di principale imprenditore politico dell’intolleranza esercitato dalla Lega nella recente storia italiana. E questo anche ben prima che in nome del «primato degli italiani», Salvini aggiungesse al portato xenofobo del Carroccio di Bossi e Maroni un profilo neo-nazionalista e patriottico-identitario, ridefinendo in senso compiutamente «fascio-leghista» il suo partito. Fino a ricomporre, complice la crisi sociale e un crescente serbatoio di voti «in cerca di autore», la «nuova destra» post-industriale dell’iniziale movimento leghista con quella di vecchio stampo, erede delle diverse tradizioni fasciste nazionali.

Da questo punto di vista, al contrario di quanto viene spesso affermato, la Lega ha potuto togliere il «Nord» dal proprio simbolo, reinventandosi almeno in parte un nuovo profilo ancor più offensivo, non perché abbia davvero operato uno strappo rispetto alla sua storia recente, ma perché ha potuto approfondire un solco per certi versi già tracciato. Allo stesso modo, anche l’abbraccio con l’estrema destra, di tipo per così dire più «tradizionale», si è operato inizialmente, in Europa come nel nostro Paese, a partire proprio dalla comune battaglia contro «l’islamizzazione».

Così, per esempio, è già del 2008 il sostegno leghista alla campagna contro la costruzione della grande moschea di Colonia, antesignana delle recenti mobilitazioni di Pegida a Dresda, con l’eurodeputato Mario Borghezio che urla dal palco della città tedesca: «Europa cristiana, mai musulmana». O quello, l’anno successivo, a favore del referendum svizzero contro «i minareti», per una moratoria nella costruzione dei luoghi di culto musulmani. Questo, senza contare come da Lodi a Colle Val d’Elsa, le bandiere del Carroccio si sono mescolate, già prima di sfilare accanto a quelle di Casa Pound, nel corso di più di un decennio con i simboli di Forza Nuova per contestare la costruzione di moschee o centri culturali islamici. E anche il feeling, più volte tentato dalla Lega anche se con esiti incerti, con esponenti ecclesiastici, come avvenne con l’allora vescovo di Bologna, Giacomo Biffi, si è basato sulle comuni critiche nei confronti dell’immigrazione islamica.

La strada che porta al «prima gli italiani» inizia spesso da una testa di maiale lanciata in un campo dove dovrebbe sorgere una moschea.