Nell’ultimo ciclo di ammissioni alla prestigiosa Università medica di Tokyo su 2614 domande sono stati ammessi 131 candidati di sesso maschile e 30 femminile. Se il numero sembra negare il talento femminile per la medicina, ci si può consolare, non è così. Dal 2010 a oggi l’università ha ritoccato i risultati degli esami di ammissione per ridurre il numero di donne ammesse ai corsi. Sul totale delle domande presentate nell’ultimo anno, il 39% proveniva da candidate e solo il 18% di queste ha superato l’orale (ma ben il 33 la preselezione).

IL MOTIVO del comportamento dell’università sarebbe stato il timore di un eccessivo ricambio di personale negli ospedali dovuto alle future assenze per maternità, come riporta la stampa nipponica. La frode è emersa nel corso di un’indagine interna legata ad un episodio di corruzione relativo agli esami stessi.

Lo scandalo degli esami truccati scoppiato ieri è la cartina al tornasole delle radicate aspettative (e discriminazioni) verso la donna presenti nella società giapponese. Al centro di queste vi è la qualità dell’occupazione femminile, che è per le donne giapponesi tradizionalmente legata a contratti precari e parziali; mentre la quantità è meno problematica, con una partecipazione attorno al 66% della forza lavoro. Accentua, inoltre, il problema la quasi assenza femminile dalla classe dirigente del paese, ancora fermamente feudo maschile: appena il 10% di donne occupano posizioni dirigenziali (di regola legate all’anzianità, interrotta per le donne da gravidanze e cura dei figli) e solo il 5% dei politici in carica è donna, il dato più basso tra tutti i paesi Ocse. Di queste poche rappresentanti ce ne sono poi diverse, tra quelle che fanno parte della maggioranza liberaldemocratica, che esprimono posizioni fortemente anti-femministe.

INOLTRE, a causa di un lungo sottoinvestimento, le liste di attesa negli asili delle città nipponiche sono lunghissime. Tanto che molte donne che pur vorrebbero un lavoro a tempo pieno sono costrette a restare fuori dalla forza lavoro se hanno un marito che già lavora, come succede a quelle che non trovando un posto in asilo scelgono forzatamente di dedicarsi alla famiglia. Si registrano anche storie di impiegate che tornano al tempo pieno, ma soprattutto tra chi ha i figli già grandi.

In un rapporto del 2014 del Ministero degli Esteri le donne giapponesi sono definite come «la risorsa più sottoutilizzata del Giappone». La doppia utilità della donna è evidente nelle linee politiche dell’esecutivo. Da un lato la donna è un pezzo centrale delle riforme economiche della Abenomics, che dovrebbe rilanciare l’economia del paese tramite la mobilitazione della forza lavoro femminile ancora sottooccupata. Dall’altro la donna è al centro della politica di incremento della natalità del governo.

LE ATTIVISTE NIPPONICHE di sinistra denunciano le politiche statali della famiglia, con lo stato che ha finanziato maggiormente i festival tradizionali come se fossero agenzie per incontri e non vedono, però, contraddizione tra i due obiettivi del governo, ma solo un modo di sedurre diversi settori dell’elettorato – natalità per la nuova destra e diritto al lavoro per l’elettorato più moderato – necessario dopo i risultati elettorali che vedono Abe in netta difficoltà tra le elettrici.

Nel settembre 2013 nel suo discorso all’assemblea generale dell’Onu il Primo ministro giapponese Shinzo Abe, prometteva di realizzare una «una società in cui le donne brillino» – divenuto poi uno slogan del governo. Per ora queste ultime restano strette tra le ambizioni della politica economica e i limiti imposti dalla società.