Ma davvero vedremo Donald Trump con la tuta arancione dei carcerati e robusti agenti federali che lo accompagnano in manette verso un penitenziario? Il sogno proibito dei dem americani (e di decine di milioni di persone in tutto il mondo) nel 2023 potrebbe forse avverarsi.

Mettiamo in fila le quattro indagini principali che lo riguardano (ma ce ne sono altre). Il pericolo più grave riguarda il suo ruolo nell’attacco al Congresso del 6 gennaio 2021, che ora procede nelle mani di un procuratore indipendente nominato la settimana scorsa. La seconda è in corso in Georgia, per il tentativo di manipolare i risultati elettorali del 2020: questa è in uno stadio molto avanzato e già in marzo Trump potrebbe ritrovarsi sul banco degli imputati. La terza è quella relativa ai documenti segreti ritrovati dall’Fbi nella sua residenza di Mar-a-Lago, in Florida. La quarta nasce dalla condanna della Trump Organization per frode fiscale, avvenuta l’altroieri a New York. La compagnia immobiliare del tycoon, che non era incriminato ma è stato al centro delle arringhe dei pubblici ministeri, è stata riconosciuta colpevole dalla giuria di tutti e i 17 capi di imputazione: dalla frode fiscale alla falsificazione dei registri aziendali.

TUTTE QUESTE INDAGINI, in vari stadi di avanzamento, potrebbero portare Trump in galera per il resto dei suoi giorni ma si scontrano con un ostacolo politico: l’annuncio di una sua nuova candidatura alla presidenza, avvenuto due settimane fa. Negli Stati Uniti l’esercizio dell’azione penale è discrezionale, come vorrebbe fare anche in Italia il governo Meloni mettendo fine all’indipendenza della pubblica accusa. Se i pubblici ministeri non sono però autonomi nelle loro decisioni ma seguono le direttive del governo in carica, incriminare per tradimento e insurrezione un candidato alla presidenza del partito opposto è politicamente esplosivo, un’azione mai avvenuta dal 1787 ad oggi, un processo che assumerebbe caratteri politici degni della Cina di Xi.

Questo è il motivo per cui il procuratore generale Merrick Garland ha nominato un procuratore indipendente con un curriculum inattaccabile, Jack Smith, che deciderà il da farsi (Smith non sorride mai e quando sorride sembra una tigre che si lecca i baffi pensando a voi come a una buona cena). Gran parte del lavoro è già stato fatto dalla commissione d’inchiesta della Camera che in questi giorni passerà il materiale raccolto e le sue raccomandazioni al dipartimento di Giustizia, quindi anche in questo caso le indagini potrebbero concludersi rapidamente con un rinvio a giudizio nel 2023 (nessuno vuole aprire un processo politico in un anno elettorale come il 2024).

A COMPLICARE le cose sta la presa di Trump sulla base del partito repubblicano, diminuita ma non scomparsa. Nelle elezioni per il Senato in Georgia ha vinto il senatore democratico Raphael Warnock ma il 49% dei votanti ha comunque sostenuto un candidato impresentabile come Herschel Walker, incapace di articolare tre frasi sensate di fila ma scelto da Trump.
Quindi è possibile che nelle primarie repubblicane del 2024 appaiano altri candidati ma le loro possibilità di successo contro l’ex presidente sono dubbie. Il governatore della Florida Ron Desantis ha l’ambizione di sfidare il suo maestro e probabilmente troverebbe il sostegno dell’establishment del partito ma in fin dei conti sono i voti dei cittadini che decidono e a votare nelle primarie vanno i più militanti e ideologizzati, non i tiepidi e gli incerti.

IN GEORGIA, l’energica procuratrice democratica Fani Willis annuncerà nelle prossime settimane il rinvio a giudizio di Trump per la telefonata del gennaio 2021 in cui chiedeva al responsabile delle elezioni nello Stato, Brad Raffensberger, di «trovargli» 11.000 voti in più per rovesciare a suo favore il risultato delle elezioni presidenziali nello Stato (lo scarto fra Biden e Trump era appunto molto piccolo). Un caso a prova di bomba per l’accusa, visto che esiste la registrazione della telefonata, eseguita dallo stesso Raffensberger.