Xavier Salomon, Deputy Director e Chief Curator della Frick Collection

 

Il progetto della nuova Frick firmato Selldorf Architects

 

Confrontarsi con Xavier Salomon, Deputy Director e Chief Curator della Frick Collection, riserva sempre piacevoli sorprese. Approdato in America dopo essersi occupato dei tesori della Dulwich Picture Gallery (il più antico museo pubblico inglese), si è visto inserito dapprima nello staff del dipartimento di pittura europea del Metropolitan, sotto la guida di Keith Christiansen, per poi spostare i propri libri e i propri files a pochi isolati di distanza, mantenendo dal suo nuovo studio alla Frick – dove si è insediato nel 2014 – un affaccio invidiabile su Central Park.
Protagonista di una carriera di successo – basti pensare che Salomon (senza indulgere in indiscrete confidenze anagrafiche) esce dalla Generazione X, adolescente sul baratro fra anni ottanta e novanta – oltre che autore di una solida produzione scientifica, si è quindi dovuto commisurare con una collezione illustre, al centro dei riti e delle tradizioni cari al beau monde newyorkese. Nell’immaginare per essa – al fianco di Ian Wardropper – un futuro longevo, rispettoso insieme delle esigenze di pubblico e di quelle ‘vocazionali’ connesse a una fra le maggiori raccolte artistiche statunitensi, si è trovato così a gestire l’ambizioso progetto di ampliamento dell’edificio fra Fifth Avenue e Settantesima, la cui fondazione risale agli anni dieci del secolo passato; un cantiere immaginato ormai da qualche tempo, la cui gestazione apre però al twist da cui parte la nostra conversazione.
Nel pensare infatti una simile impresa, vincolata in un certo senso alla storia di una ‘casa’ quanto a quella di una città, Salomon – in accordo con lo staff del museo, un gruppo coeso che ricorre spesso nelle sue parole in termini di amicizia e collaborazione – aveva infatti deciso di presentare le opere di solito esposte nella sontuosa residenza della Gilded Age in un contenitore inatteso, cogliendo l’opportunità offerta da un sorprendente passaggio di consegne: l’idea era stata quella cioè di affittare dal Met lo stabile su Madison Avenue disegnato sulla metà degli anni sessanta da Marcel Breuer, una ‘scatola’ brutalista nata in origine per ospitare il Whitney Museum (che ancora ne detiene la nuda proprietà). Quel severo blocco di cemento armato, granito e vetro avrebbe dunque accolto alcuni straordinari capolavori old masters, da Cimabue a Piero della Francesca, da Ingres a Goya, rinunciando ai rompicapi contemporanei, agli eventi espositivi dedicati al Novecento canonico che ne hanno fin qui riempito gli spazi, assecondandone l’originale destinazione. Un simile trasferimento – messo a punto grazie a una pianificazione accorta – si sarebbe dovuto completare nell’arco breve di un semestre, a sede storica già chiusa in vista dei lavori futuri: ci si è poi messo di mezzo il Covid, con inevitabili conseguenze in termini di calendarizzazione e slittamenti, rinviando di altri sei mesi l’inaugurazione. Ora però il Frick Madison ha aperto le porte, facendo rimare le pareti graffiate di quell’elegante monolite con le superfici gibbose dei Rembrandt, con gli smalti intatti del Cinquecento fiorentino: un’occasione per parlare con Xavier dell’oggi e del domani, chiarendo motivazioni e spunti per la stagione che il museo si trova a vivere e per gli obiettivi della campagna di ristrutturazione.
In un momento in cui i musei hanno dovuto far fronte alla crisi pandemica voi vi siete trovati con un nuovo spazio da gestire. Quanto ha impattato l’emergenza con il progetto e quanto la nuova situazione espositiva si sta relazionando con il nostro momento storico?
Il piano di restauro e ampliamento della Frick era in campo già da vari anni e l’idea di trasferire temporaneamente le collezioni al Breuer è stata discussa negli ultimi tre: quindi tutto predata il Covid. Il trasferimento affrontato in questa situazione è qualcosa che non augurerei al mio peggior nemico: tuttavia siamo riusciti a concluderlo, ovviamente con dei ritardi. Avevamo messo in cantiere una chiusura per sei mesi: in realtà è durata un anno e questo ha avuto un impatto finanziario importante sulle nostre economie. Negli Stati Uniti l’assenza di introiti ‘da biglietteria’ costituisce infatti una perdita molto importante per qualsiasi istituzione. Bisogna però dire che il nuovo spazio ci ha consentito di rispettare le regole formulate dai direttori dei musei newyorkesi durante la crisi; ingressi a tempo, ridotti al 25% rispetto alla capienza normale: il Breuer del resto, in termini di metri quadri, non è molto diverso rispetto alla casa.
Incredibile! Il Breuer sembra un contenitore molto più grande!
Non lo è; i suoi tre piani equivalgono al piano terra della Frick, senza però avere ambienti come la grande sala ovale o sfoghi come il giardino. Anche nell’allestimento attuale, comunque, il Breuer conferma l’effetto che hai descritto; questo perché abbiamo esposto un numero minore di opere (scelta che involontariamente facilita il flusso di spettatori nel bel mezzo della pandemia).
La disposizione delle raccolte ha un forte impatto visivo. C’è stata per caso un’immagine germinativa, a cui il progetto si è intonato?
La prima immagine (materializzatasi poi al Breuer) ha riguardato la creazione di una ‘cappella’ per il San Francesco di Giovanni Bellini, fra i capolavori della Frick, che volevamo associata a una delle celebri finestre del museo: il tema del quadro è la luce! Questo cortocircuito ben spiega le nostre intenzioni. Non bisogna dimenticare che lo stabile è un edificio tardo-modernista, molto datato per la sua estetica, ma anche uno dei grandi esiti di quella stagione. Ci siamo detti che non si poteva semplicemente ‘cancellarne’ la struttura; abbiamo anzi pensato fosse nostro dovere valorizzare ogni singolo aspetto. Per esempio non abbiamo voluto introdurre colori estranei alla gamma dei bianchi e dei grigi, così predominanti; in maniera analoga ci siamo prefissati di rispettare i materiali originali. Abbiamo anche condotto un lavoro archeologico, riutilizzando ad esempio le panche originali disegnate da Breuer; in questo siamo stati aiutati dai colleghi del Whitney e del Met. È comunque la prima volta in cui il museo ospita solo creazioni antecedenti al primo Novecento: se dovessi pensare a un parallelo ‘italiano’, sarebbe come, a Roma, trasferire la Galleria Borghese al Palazzetto dello Sport.
Nel caso del Bellini, si ha come l’impressione che il quadro risemantizzi l’edificio, quasi trasformandone le finestre sghembe in una sorta di griglia prospettica… A proposito dei precedenti: cosa avevate in mente disegnando l’allestimento?
Abbiamo studiato altri musei: l’idea è stata quella di analizzare edifici moderni, per lo più di metà Novecento, con collezioni di arte antica. I tre che hanno attirato maggiormente la nostra attenzione sono stati: il Kimbell Museum a Fort Worth, un esito clamoroso di Louis Kahn; il Gulbenkian di Lisbona; il meno conosciuto – e però interessante – Musée des Beaux-Arts di Besançon, di impianto ottocentesco con un’aggiunta degli anni sessanta. Qui ad esempio un tardo Bellini, l’Ebbrezza di Noè, è appeso sul cemento.
Da quanto lavorate con l’architetto Annabelle Selldorf, che si è occupata dell’allestimento?
La sua firm sigla anche il progetto di espansione dell’edificio storico. Va tenuto presente che il rapporto fra curatori e architetti è diverso nel mondo anglosassone: negli Stati Uniti, di solito, le mostre sono disegnate dallo staff del museo e poi affidate a un designer per la messa a punto del progetto (noi lavoriamo da anni con Stephen Saitas). Di fronte alla sfida del Breuer abbiamo pensato di aver bisogno di uno sguardo ‘architettonico’ che organizzasse le nostre decisioni. Si è trattato di una triangolazione virtuosa.
Vedendo i progetti già ultimati dalla Selldorf ho l’impressione che abbia l’abitudine a lavorare su architetture siglate.
Certo! Annabelle ha partecipato, per esempio, alla ristrutturazione del Clark Insitute di Williamstown, realizzato su progetto di Tadao Ando; ha però anche realizzato uno degli spazi espositivi più riusciti, in Italia, negli ultimi anni, e cioè le Stanze del Vetro della Fondazione Cini a Venezia. Ha una visione modernista e una grande sensibilità per le realtà preesistenti: non volevamo un’astronave attaccata alla Frick ma piuttosto una nuova serie di spazi che si legassero a quelli storici, senza arrivare al ‘falso’.
Sulle scelte museografiche adottate per il Frick Madison: mi ha colpito soprattutto l’enfasi riservata all’idea di scardinare lo schema della casa-museo, ricorrendo a un allestimento rispettoso di concetti tradizionali come l’ordine cronologico, la divisione in scuole nazionali; scelte che confliggono con esperienze recenti, legate invece a una divisione per temi o a sorprendenti rapporti di prossimità.
La discussione c’è stata dall’inizio. Abbiamo uno spazio vuoto e una collezione: come organizzarli? Si è immediatamente deciso di non ricostruire le sale della Frick. Quindi, a quale narrativa rivolgersi? Ci sono opzioni infinite: temi, dimensioni, storia del collezionismo… Si sarebbe potuto esporre per data di acquisizione: sarebbe stato il modo più interessante? Non ne sono sicuro. Per temi? La collezione della Frick è forte in ritratti e paesaggi, ma mancano quasi del tutto nature morte, scene erotiche, grandi quadri religiosi; c’è poi una collezione importante di arti decorative. Perseguire quindi la strada della geografia e della cronologia ci è sembrata la scelta più logica.
E anche più didattica?
Pur non essendo l’unica soluzione, è quella che trovo più appropriata per una collezione enciclopedica. Tuttavia anche nel caso della Frick, le cui raccolte sono per lo più espressione del gusto di un singolo individuo, tale percorso fa comprendere quali siano i punti di forza e quali le assenze nella raccolta.
Da questo punto di vista, qual è l’insieme che ritieni foriero di maggiori informazioni rispetto all’allestimento tradizionale?
Ogni sala è una sorpresa per una serie di motivi diversi. Anche il Bellini è una sorpresa perché di solito è appeso fra due Tiziano, due Holbein di fronte, tra statue cinesi e bronzi C’è la possibilità di vedere insieme i nove quadri spagnoli – El Greco, Goya, Velázquez, Murillo – e questo aiuta un pubblico generale a capire le differenze degli stili. La stanza dei Fragonard è un’altra opportunità colta sin dall’inizio: per la prima volta le quattordici tele comprate da Frick sono riunite in un unico ambiente (tre di solito sono in deposito). È vero, del resto, che nella casa tante delle opere diventano invisibili, in parte per abitudine, in parte per la loro sistemazione ‘funzionale’: succede soprattutto con le arti decorative.
Ecco, come funziona per gli arredi il nuovo allestimento? Ha creato difficoltà maggiori o minori?
Quella che abbiamo affrontato è un’impresa di traduzione: continuo a dire che è stato come trasporre in giapponese Moby Dick. Insieme si è trattato di un’operazione di decontestualizzazione e scomposizione: un parallelo potrebbe essere mostrare gli ingredienti di un piatto prelibato. Per le arti decorative abbiamo dunque scelto di trattarle per la prima volta, nel contesto della loro storia all’interno della collezione, come un Rembrandt o un Vermeer. Ad esempio, possediamo due incredibili tappeti indiani del Seicento, realizzati per le manifatture imperiali di Shah Jahan, il costruttore del Taj Mahal. Si tratta di pezzi straordinari, perché ne esistono circa cinquecento in tutto il mondo e la maggior parte sono conservati in India. La coppia della Frick non è quasi mai esposta, per motivi di luce, conservazione, spazio: al Breuer abbiamo fatto una sala dedicata solo a queste opere: l’impatto è incredibile e il pubblico le ‘riconosce’ per la prima volta.
L’idea di lavorare con questo spazio, caratterizzato e stranamente neutro, lo avete considerato anche una palestra per il rientro alla Frick?
Gli spazi espositivi della casa saranno raddoppiati grazie ai lavori in corso: tuttavia la casa e il suo allestimento storico non verranno rivoluzionati. Il progetto è soprattutto un piano di restauro: quello che sento e voglio molto è il recupero di alcuni spazi che sono andati perduti nel corso degli ultimi ottant’anni, come la sala degli smalti voluta da Frick (e oggi occupata dai fondi oro). Ci sarà una continuità tra piano terra e primo piano, che intendiamo recuperare al percorso (oggi è occupato dagli uffici, un tempo dalle abitazioni della famiglia). A questo livello, alcune stanze saranno restituite esattamente come erano all’epoca di Frick, mentre altre – quelle da letto, i bagni – saranno trasformate sempre in linea con gli altri ambienti. I quadri dell’Ottocento francese saranno, ad esempio, ricollocati nella ‘breakfast room’, dove li aveva voluti Frick, assieme ai mobili originali. Stiamo facendo una ricostruzione filologica perché abbiamo le fotografie, abbiamo le stoffe originali, sappiamo esattamente qual era il suo allestimento e quindi possiamo ricrearlo fedelmente; proprio come succede per altri spazi. Siamo quindi di fronte a una fase temporanea, per quel che riguarda il Breuer. L’importante è ristrutturare il museo e ricrearlo com’era. Sarà un lavoro enorme: il risultato sorprenderà gli occhi dei visitatori abituati alla Frick degli ultimi tempi ma consentirà loro di riconnettersi con un momento più antico, quello in cui la famiglia viveva la casa riempiendola di tesori.