Rimasta senza un soldo, dopo aver speso la fortuna del marito ricchissimo e defunto, una socialite newyorkese avvolta di mistero liquida casa e quadri e si imbarca sulla Queen Mary alla volta di Parigi. Il 58esimo New York Film Festival si è chiuso sabato sera con la proiezione di French Exit, di Azazel Jacobs, adattato dal romanzo omonimo di Patrick De Witt – french exit in inglese è sinonimo di andarsene alla chetichella.

È più o meno così che Frances Price (Michelle Pfeiffer – pericolosamente in bilico tra la leggerezza comica di Kay Francis in Mancia competente e la spettralità Cgi di Angelina Jolie in Maleficent) chiude il sipario sulla sua vita di lusso e si parcheggia nell’appartamento parigino di un’amica.

Insieme a una borsa piena di contante e a un gatto nero di nome Small Frank (che forse è il fantasma del marito scomparso), la accompagna suo figlio Malcolm (Lukas Hedges), un ragazzo taciturno il cui rapporto simbiotico con la mamma non può che ricordare il primo film di Aza Jacobs, Momma’s Man, in gran parte girato nel loft dei genitori, le leggende del cinema underground Usa, Ken e Flo Jacobs. Da allora, il cinema di Jacobs Jr. – che con De Witt aveva già collaborato in Terri – si è spostato in une direzione sempre più tradizionalmente narrativa. French Exit è il suo lavoro che più si avvicina a un film «hollywoodiano», pur se a basso costo.

LUBITSCH, sicuramente, ma anche Bunuel e Re per una notte di Martin Scorsese sono state alcune delle ispirazioni, ha spiegato Jacobs nella conferenza stampa virtuale organizzata dal festival: «Ho letto il libro in un giorno e ho subito chiamato Patrick per dirgli che volevo fare il film. Solo dopo mi sono chiesto perché ero stato conquistato da un mondo tanto lontano da quello in cui sono cresciuto.

Lo humor e l’umanità della scrittura di De Witt sicuramente hanno pesato sulla mia scelta. Ma è vero che sono attratto da storie che hanno ha che fare con le classi sociali – Bunuel mi piace molto, Le regole del gioco di Renoir, Mancia competente… Storie in cui lo humor scaturisce dal contrasto tra persone di diverse estrazioni che magari si trovano in una stanza, o dal fatto che un personaggio deve interagire con un milieu completamente diverso da quello che lo ha formato».

La vita di Frances e Malcolm ha Parigi, nel grande appartamento deserto, ha un che di sospeso nel vuoto fino a quando – causa la scomparsa del gatto – viene «contaminata» dalla presenza di una vicina un po’ patetica, una giovane chiromante e un detective privato. Da New York arriverà anche la ex fidanzata di Malcolm. Il tutto crea un’atmosfera di affollamento tra Woody Allen e Wes Anderson (a cui contribuisce un’infelice colonna sonora imitazione Desplat), di cui però il cinema di Jacobs non condivide il senso comico né, nel caso di Anderson, il controllo ossessivo dell’inquadratura.

LA SUA VOCAZIONE intimista/indie, l’uso un po’ sventolante della macchina da presa, lo trovano più a suo agio in piccoli momenti di cosiddetta «umanità» e piuttosto confuso di fronte a un personaggio affascinante e complicato come quello di Frances, il cui dna avvita insieme ferocia, sensualità, malinconia struggente, calore materno, follia e screwball. Si tratta – e Pfeiffer avrebbe la qualità adatte – di un personaggio allo stesso tempo reale e stilizzato.

C’è un’aria un po’ soprannaturale ma anche di morte che aleggia intorno a questa donna bellissima e un po’ sfiorita che si aggira per le strade di Parigi, distribuendo mance stravaganti come per liberarsi del denaro più in fretta possibile. Progressivamente emarginata dal suo stesso film, Frances non potrà che esserne espulsa – in modo che gli altri personaggi (il figlio in particolare) possano continuare la loro vita «normale», sembra dirci il film. Una morale ingiusta, sia narrativamente che umanamente parlando.