Metti un coworking della Cgil a Milano. A pagamento e a prezzi di mercato nella città che aspira al riconoscimento di smart city più collaborativa del paese. Si chiama Worx e il suo sito si apre con una rivisitazione del quarto stato di Pelizza di Volpedo del disegnatore Makkox.

Makkox ha prestato un suo disegno alla Cgil dove il quinto stato dei freelance e degli indipendenti è guidato da un manager col cappello e in maniche di camicia, un operaio che ha sostituito la felpa della Fiom con la scritta “Partita Iva” e una professionista che al posto del bambino del famoso dipinto regge un mac della Apple. Dietro ci sono giovani e meno giovani “Ipros” e precari. Loro sarebbero la nuova avanguardia, pare da capire da un disegno che sovrappone piani storici e analisi sociali stereotipate in una sola retorica.

Le tariffe

Ai primi dieci coworkers che chiederanno una scrivania al Worx in via Cesare Battisti 21, il manifesto di lancio di questa iniziativa inedita per il più grande sindacato italiano promette di offrire una “postazione in spazio multiplo completamente gratuito fino a natale”.

I dieci aspiranti coworkers potranno condividere le prime quaranta postazioni “distribuite in otto ambienti diversi su due livelli per un totale di circa 300mq e divise per tipologia singola, doppia, multipla e meeting” si legge sul sito. Stile pratico, impeccabile, da annuncio in una bacheca virtuale per professionisti.

I costi: si parte da 230 euro al mese più Iva. L’ufficio privato costa 350 euro al mese, 2800 all’anno. Microonde, wi-fi, incluso. Affitto della sala riunioni: 25 euro all’ora, 45 due ore, 150 euro tutto il giorno. Per i professionisti iscritti alla Cgil previsto il 20 per cento di sconto. Per i clienti del servizio “assistenza annuale Partite Iva” (-10 per cento).

“Hanno adottato il modello prevalente di cowork: il privato”

La notizia della Cgil che offre servizi a pagamento, con sconti per gli iscritti, già circolava a Milano. Qualcuno ha provato a parlarne quando Landini, il segretario della Fiom, è intervenuto alla conferenza di Espresso Coworking nell’ambito della Collaborative Week.

Le perplessità sono però esplose su facebook e su twitter. Il punto è: che sindacato è quello che offre servizi a pagamento ai freelance? Cosa lo differenzia dal modello business del coworking – l’affitto delle scrivanie a pagamento e l’uso dei servizi previsti dalle reti e dalle convenzioni stabilite da un coworking manager? Domande interessanti per un mondo che ha visto il sindacato, e la Cgil in particolare, come un alieno che si muove in una cristalleria. Perché la Cgil chiede il pagamento dei servizi ai freelance che non si sentono rappresentati dal sindacato?

“Non so se è sostenibile un modello di coworking gratis et amore dei a Milano – risponde Federica, grafica di 38 anni – Certo in questa scelta non prevale un modello mutualistico, ma quello privato”. Coworker, Federica ha lavorato e condiviso spazi in situazioni diverse. Così descrive la mappa milanese. “Ci sono piccole e grandi realtà. Per esempio c’è l’Impact hub in via Paolo Sarpi, un coworking molto grande, il modello della Cgil mi sembra ispirato a questo. C’è Login, un cowork convenzionato con il fab lab WeMake, in via Stefanardo da Vimercate, che partecipa alle reti internazionali dei makers”.

“Mi sembra insensato il fatto che la Cgil abbia scoperto l’esistenza di queste realtà, ne abbia realizzato solo una, senza passare dall’analisi dei modelli in campo. A me sembra che loro non abbiano capito questo modo e pensano di sfangarsela facendo un cowork. È una scorciatoia: non puoi beccare l’utenza finale solo con uno spazio in affitto. Poi cosa ci fai con questa gente?”.

Vogliono offrire un servizio ai tesserati, garantire i servizi del Caf ai freelance. “Si certo è utile – risponde Federica – ma come gliela dai l’appartenenza ai lavoratori, su quali basi dovrebbero venire a lavorare in una struttura della Camera del lavoro e non piuttosto preferire uno spazio diverso? Cgil agisce come un soggetto privato come gli altri. Qui il problema non è che lo fa per soldi, a Milano non è un fatto sconvolgente. Il problema è che hanno adottato il modello prevalente di coworking senza capire che bisogna costruire reti e comunità”.

La differenza tra avere clienti e una community

Mattia Sullini, coordinatore del Firenze FabLab, insiste sulla differenza tra il cercare clienti di un servizio e la creazione di una comunità di freelance che condividono gli spazi in un cowork. “Non puoi proporre servizi finché non hai una proposta sindacale credibile alla quale si legano quei servizi – afferma – Se proponi un servizio indirizzato ai freelance, ma come sindacato non hai dimostrato di non avere ancora capito cosa siano i freelance, di cosa abbiano bisogno e quali sono le loro specificità, allora quei servizi perdono di valori e perdi di credibilità come sindacato”.

Mico Rao, uno dei coordinatori di Lab121 di Alessandria racconta l’esperienza di un coworking basato sul baratto del tempo e delle competenze tra i soci finalizzato alla crescita delle reti e della “community” sul territorio e con le istituzioni.

“È anche vero che se Cgil avesse creato a Milano un coworking a costo zero basato su questa idea della relazione sarebbe stata criticata per concorrenza sleale dagli altri attori presenti in città – ride – Le soluzioni sono complesse, non ce n’è mai una in questo campo. La farei semplice: se questo coworking rispecchia gli obiettivi del sindacato, allora il sindacato deve dimostrarlo nei fatti in tutto il paese. Cambiando l’atteggiamento verso gli autonomi visto che si lamentano di non essere presi sul serio. Per il momento anche noi ci domandiamo quanto questa esperienza a Milano vada considerata legata a un progetto complessivo del sindacato o sia da considerarsi un’attività commerciale. Dalla nostra esperienza, ci potremmo aspettare più azioni mutualistiche. Invece, da quello che si vede, sembra che il sindacato, come qualsiasi altra organizzazione privata, abbia deciso di valorizzare i suoi spazi”.

La Camera del lavoro: “Diamo rappresentanza alle partite Iva”

Per Claudio Cerri, segretario organizzativo della Camera del lavoro di Milano, Worx non è un’iniziativa improvvisata. È il risultato di un percorso pluriennale iniziato con il Nidil. “Il coworking è fuori dalla Camera del lavoro, è promosso dal Centro servizi fiscali e rappresenta un ampliamento della gamma dei servizi del sindacato a centinaia di figure del lavoro autonomo che sono iscritte alla Cgil e si avvalgono dei servizi della consulenza fiscale, previdenziale, contributiva. – afferma – Vogliamo rappresentare questo mondo con il Nidil e abbiamo una società che eroga i servizi. Chi vuole usarli con queste caratteristiche li può usare. Le tariffe agevolate sono per gli iscritti, l’iscrizione è sempre libera, chi non vuole avrà la tariffa piena. Una partita iva può trovare a Worx un punto di appoggio, visto che non ha le risorse per permettersi un ufficio. Questa proposta va inquadrata nella politica contrattuale della Cgil, vogliamo includere un mondo del lavoro non prevalentemente dipendente e autonomo”.

Ma cosa risponde alle critiche sulla scelta del modello privato – l’affitto delle scrivanie – da parte della Cgil? “Proviamo a governare un processo, il sistema comunque c’è e senza un intervento queste persone sarebbero più fragili – risponde – Non mettiamo la testa sotto la sabbia, e affrontiamo i problemi in maniera non ideologica. Queste persone sanno di potere contare su una Cgil responsabile. Ci rivolgiamo esclusivamente ai lavoratori a partita iva. Non affittiamo spazi a lavoratori autonomi che hanno dipendenti. Diamo rappresentanza a questi lavoratori che usano i nostri servizi, per loro c’è oggi un’opportunità in più”.

Ma c’è una differenza tra il modello business e quello che crea relazioni e progetti attraverso la cooperazione tra coworkers, la città e il territorio – chiediamo noi – E il sindacato dovrebbe essere diverso da una catena di coworking in franchising. Sempre in Lombardia, ad esempio a Bergamo, c’è l’esperienza del coworking solidale che segue il modello mutualistico ed è promosso dalla stessa Cgil.

“Certamente quello di Bergamo è un indirizzo diverso, ma per certi aspetti sono complementari – sostiene Cerri – A Bergamo c’è un’utenza più vasta, rispetto alla base selezionata dalla camera del lavoro all’interno della contrattazione”. Ma allora perché non provare a costruire a Milano un “coworking solidale”? “Noi favoriamo processi di aggregazione e auto-organizzazione – risponde Cerri – e il sindacato vuole essere un punto fermo. Non avendoli a Milano, abbiamo provato a dare concretezza a un progetto che oggi trova una soluzione in un mercato a costi favorevoli. Chi si rivolgerà a noi non troverà solo la scrivania, ma anche consulenze. Il Coworking solidale può essere una forma integrativa. Se ci saranno queste forme, la camera del lavoro può essere un interlocutore”.

Fare coworking solidale a Bergamo

Nel mondo della Cgil lombarda non sembra emergere una visione progettuale sul coworking e l’associazione dei freelance. In compenso si avverte una certa vivacità che permette di moltiplicare le iniziative che seguono un modello diverso da quello milanese. Marco Toscano è il segretario generale Nidil Cgil di Bergamo è il promotore del modello di coworking solidale della Cgil: il p@asswork (la chiave per il lavoro) a Alzano e il Nest-work (il nido del lavoro) a San Giovanni Bianco in Val Brembana. Il Nest-work è ospitato in un immobile inutilizzato dello Spi-Cgil,sono state messe a concordo di idee quattro postazioni per altrettanti giovani (tra i 18 e i 35 anni). L’obiettivo: quello di creare una relazione con il territorio e le istituzioni. A p@asswork hanno aderito anche la Curia con la pastorale sociale per il lavoro e la provincia di Bergamo perchè hanno riconosciuto nel modello alternativo all’idea dell’ufficio di collocamento. Esperienze simili sono già attive anche a Trescore Balneario e al Tool Box di Bergamo.

È il risultato delle relazioni tra soggetti, associazioni, istituzioni e sindacato impegnati in un percorso che negli anni si è fatto comune. I suoi costi? Nessuno, è gratis. “L’unico vicolo che poniamo – spiega Toscano – i coworkers restituiscono al territorio una parte di professionalità acquisite nel lavoro così da arricchire le reti e le comunità locali”. Ad esempio? “Se ti occupi di videomaking puoi mettere a disposizione le tue competenze per fare attività formativa. Se il comune fa un’iniziativa tu presti le competenze per fare una campagna, e così via”.

“Solidale perché chiediamo un forte condivisione delle professionalità e di crescita insieme e non solo un affiancamento negli spazi – continua Toscano – Così possono nascere progetti autonomi insieme. Questo può essere un punto di partenza per chi lavora da casa o non ha un luogo comune dove incontrarsi. Se ci sono spazi vuoti perché non darli a questi ragazzi?”.