La riproposta, circa mezzo secolo dopo, di un noto articolo del grande scrittore patafisico e neosurrealista George Perec (1936-1982), sottoforma di libricino di 42 pagine (edito da EDB Lampi d’autore) con una breve intensa postazione del semiologo Paolo Fabbri (1939) potrebbe essere l’occasione propizia per tornare a discutere di free jazz, a sessant’anni dalla nascita più o meno ufficiale con Ornette Coleman, Cecil Taylor, Sun Ra e indirettamente Charles Mingus, Max Roach, Sonny Rollins. Quando Perec – saggista e romanziere coltissimo, autore sperimentale, membro dell’Oulipo (ultima avanguardia letteraria con Raymond Queneau e Italo Calvino) e soprattutto jazzofilo entusiasta – scrive, per una rivista, nel 1967, questo pezzo stringato (e incompiuto), è convinto che dalla «cosa» (la new thing) non si possa né si debba tornare indietro.
Non per contraddirlo, ma la storia (anche quella delle arti) difficilmente risulta un processo lineare con andamenti prevedibili su tempi anche molto ristretti: i fatti vanno diversamente e ciò che, all’epoca, ai jazzofili aperti alle novità estreme appare come una linea retta in ascesa evolutiva o in costante progresso dal ragtime al free appunto, solo due anni dopo l’intervento di Perec, viene incrinato dall’avvento del jazzrock (poi fusion) oggi giudicabile quale ulteriore svolta epocale (grazie soprattutto all’indefesso sperimentatore Miles Davis). Non si sa cosa ascolti o segua nel jazz il buffo simpatico George fino alla morte precoce: di lui in italiano è tradotta solo una bella intervista come premessa alla guida bibliografica Mi ricordo il jazz (Marcos Y Marcos, 1999), intervista che in realtà risale a vent’anni prima in cui l’autore de facto sostiene di non ascoltare più jazz perché ormai «morto».
PROMESSE
Il problema, non solo per Perec, è che nel 1979 il free jazz non mantiene le promesse del 1967 o quelle del 1958 per ragioni finora ignorate o per nulla studiate dalla jazzologia di allora e di oggi. Infatti, già negli anni Settanta non si sente più parlare di free jazz (tanto meno di new thing), benché esistano sonorità avanguardiste che ne continuano la lezione, ma che vengono ribattezzate via via creative music, improvised music, great black music, free music, frei muzik, musica totale (pur con i dovuti necessari distinguo). Anche questo jazz oltranzista, attorno al 1980, viene quasi sopraffatto per quantità e soprattutto a livello mediatico da un ennesimo «ritorno all’ordine» (sostanzialmente hard bop) capeggiato da Wynton Marsalis.
Sono i corsi e i ricorsi storici di cui parlano filosofi, critici, sociologici, che nel jazz in molti vorrebbero normalizzare facendo corrispondere uno stile per decennio con susseguente ricambio generazionale: ad esempio anni Trenta lo swing, Quaranta il bebop, Cinquanta il cool e poi l’hard bop, eccetera, eccetera. Si sa che non è proprio così, perché da sempre, dalle origini, coesistono nel jazz svariate tendenze, di cui è ben consapevole lo stesso Perec quando ne La cosa, oltre il free jazz, parla della vitalità, negli anni Sessanta, delle orchestre di Count Basie e Duke Ellington o del talento di swinger, bopper, hardbopper, da Clark Terry a J.J. Johnson, da Donald Byrd a Johnny Griffin sino a Cannonball Adderley (talenti, per lui, stagnanti o limitati dall’obbligo delle forme precedenti il free jazz).
Ma allora dove va il jazz nel 1967 secondo Perec? Prima che lo scritto s’interrompa (bruscamente?), George fa in tempo a nominare la parafrasi di Archie Shepp (nel 1967 il numero uno dei free jazzmen) della bossanova The Girl from Ipanema, per concludere che «la citazione è quindi il luogo elementare dell’improvvisazione, il cammino o, almeno, il relais necessario a ogni invenzione».
Paradossalmente Perec ipotizza il jazz a venire, quello degli anni Ottanta, che non potrà mai ascoltare, quando la musica afroamericana inizia a vivere una stagione (tuttora in corso) come mai le accade fin dalle sue radici, in cui sono proprio alcune marcate linee citazioniste a prevalere: i nuovi hardbopper che rifanno gli anni Cinquanta, l’acid jazz che ripropone i Sixties filtrati dal soul e dal funky, l’etno-jazz che si contamina con esperienze locali folkloriche, un mainstream che recupera l’uso degli archi (tacciato di kitsch in precedenza), l’electro-swing che vede i dj mixare Benny Goodman o Glenn Miller ai ritmi techno.
Forse inconsciamente Perec, con quest’atto d’amore spassionato per il free jazz, racconta l’ultima romantica avventura del jazz medesimo, forse rendendosi conto, che da allora in poi – come di fatto accaduto a tutti gli studiosi o i divulgatori che si cimentano nella storia e nella sociologia del jazz – non si potrà più narrare nulla di così avvincente: e non è un caso che – oltre qualche morte precoce, Eric Dolphy, John Coltrane, Albert Ayler, Roland Kirk – gli stessi grandi protagonisti da Ornette Coleman ad Archie Shepp (salvo Cecil Taylor) non suoneranno più free jazz, lasciando ad altri il compito di radicalizzare ulteriormente la libera improvvisazione.
ESTREMI
Pur constatando la maggiore assoluta rivoluzionarietà del free jazz fino al 1967, nella «vulgata» di Perec, si sa che da allora – e forse in tal senso è fatidico il Sessantotto – si sviluppa una musica strutturalmente ancor più estremista tra Chicago e il Nord Europa, tra il nero Anthony Braxton e l’inglese Evan Parker, per citare due artisti ancora attivissimi. Dunque un free jazz – che però molti critici han paura di chiamare tale – senza paturnie citazioniste ancora prospera con gli ultimi «superstiti», mentre i padri storici, come accennato, sono quasi tutti scomparsi per motivi anagrafici, spesso in disaccordo con i figli che, da Ravi Coltrane a Joshua Redman, si ancorano al citazionismo boppistico.
Alla fine la lettura de La cosa, oltre le valenze estetico-metodologiche per altre discipline, pone l’accento su una questione da redimere al più presto: perché non si parla più di free jazz (e new thing) e perché soprattutto quasi nessuno usa più l’espressione free jazz? Sembrano parole tabù che evocano musiche difficili, politiche, marxiste, impegnate, ideologizzanti e che magari stonano di fronte al finto buonismo omnicomprensivo del concetto che oggi alcuni hanno del jazz (un festival come Umbria Jazz ne è forse l’esempio più patetico). Perec quindi, alla fine, giunge a dare una risposta costruttiva a quella critica reazionaria, timorosa di pronunciare «free jazz» a proposito di musicisti (giovani e non) estranei alla logora routine (hard bop e mainstream), pronti invece ad avventurarsi lungo la via di una «cosa» che ha ancora molto da dire, purché la si chiami con il suo nome esplicito.
Oltre le questioni «serie», alla fine una curiosità assale il lettore de La cosa, quando a un certo punto molto umilmente Perec sostiene di essere solo un conoscitore parziale del free jazz avendo ascoltato, senza muoversi da Parigi, pochi concerti e «solo» trenta album: ma trenta lp di free jazz nel 1967 risultano già un buon repertorio, anche in rapporto a una musica che all’epoca, come oggi, fatica moltissimo a farsi pubblicare: purtroppo il Patafisico nomina solo qualche autore – tra cui il pianista francese François Tusques e solo tre titoli vengono nominati nel corso dello scritto: per la cronaca Our Man in Jazz di Sonny Rollins e Don Cherry, Avant-Garde di John Coltrane e Don Cherry, Tomorrow Is a Question e Free Jazz entrambi di Ornette Coleman. Dove sarà finita la collezione? L’appartamento di Perec in rue Linné nel 2017 viene posto in vendita purtroppo senza il mobilio originale, senza farne una casa-museo. E qualcuno nell’amato Quartier Latin – magari qualche amico, familiare o esponente dell’Oulipo – saprà risolvere il mistero?