L’Iliade si apre con la peste che devasta il campo dei guerrieri greci intorno a Troia. Crise, sacerdote di Apollo, il dio “che colpisce lontano”, chiede all’assemblea degli Achei di riscattare la figlia Criseide, tenuta da Agamennone schiava. Ma è dall’Atride respinto e oltraggiato. Crise, minacciato, si incamminò in silenzio “del risonante mar lungo la riva” e rivolse una invocazione al dio: “ascoltami, Arco d’argento (…)/paghino i Danai le lacrime mie coi tuoi dardi./Disse così pregando: e Febo Apollo l’udì,/e scese giù dalle cime d’Olimpo, irato in cuore,/l’arco avendo a spalla, e la faretra chiusa sopra e sotto:/le frecce sonavano sulle spalle dell’irato/al suo muoversi; egli scendeva come la notte./Si spostò dunque lontano dalle navi, lanciò una freccia,/e fu pauroso il ronzío dell’arco d’argento./I muli colpiva in principio e i cani veloci,/ma poi mirando sugli uomini la freccia acuta/lanciava; e di continuo le pire dei morti ardevano, fitte”.

La freccia è l’arma che giunge da lontano, colpisce senza che l’arciere appaia visibile. Come la piaga che inaspettata reca la morte, giunge da lontananze immemoriali, misteriose, nelle quali è impossibile scrutare, scorgere il nemico ed affrontarlo. Così nulla è possibile opporre al morbo, al moltiplicarsi dei suoi colpi, le ferite sono strali veloci nell’aria che paiono inflitte dal cielo. Rappresentazione la più antica forse dell’epidemia, questa d’Omero. Così formulata, essa si fissa in immagine, resta pressoché immutata nel corso dei secoli, tanto appare degna di fede nel dar conto dello stato d’animo immediato che provoca il presentarsi del male.

L’opera inflessibile e spietata della divinità anima così d’un perfetto rilievo il moto di sgomento che si diffonde innanzi al dilagare del contagio, configura il terrore che afferra nella consapevolezza che, una volta colpiti, non c’è scampo. E la freccia, arma letale che giunge inaspettata e non vista, dice d’una morte tanto imprevedibile quanto immediata, non preceduta da segni che la premoniscano, sconosciute l’origine e la traiettoria. Dunque incomprensibile l’epidemia, e per secoli l’arte medica non è in grado di decifrarne le cause ed elaborare rimedi efficaci.

Si racconta che il famoso medico Guy de Chauliac (1295 c.-1368) celebre autore del trattato Chirurgia che farà testo fino al Settecento, al diffondersi della Peste Nera quando, nel 1348, minaccia Avignone non altro raccomandasse al papa Clemente VI, il benedettino Pietro Roger de Rosières (1291-1352), se non “fuge cito, vade longe, redi tarde” (fuggi rapidamente, vai lontano, fa ritorno lentamente). Ai re greci rivelò Calcante (“che conosceva il presente e il futuro e il passato”) nella collera di Apollo l’origine del contagio e, con sacrifici al dio e la restituzione di Criseide al padre, la peste ebbe termine.

Anche papa Clemente avrà invocato, è da supporre, la misericordia divina memore di Giobbe (“Sì, le frecce dell’Onnipotente mi stanno infitte, il mio spirito ne succhia il veleno e i terrori di Dio mi si schierano contro”) forse recitando le parole del salmista (“Sì, siamo distrutti dalla tua ira,/siamo atterriti dal tuo furore.”) e pregando l’intercessione dei santi guaritori delle malattie contagiose come Lazzaro, Cosma e Damiano; o Antonio o Rocco, o Sebastiano. E, forse, primo fra tutti, proprio Sebastiano, giovane di rara bellezza, ufficiale della guardia imperiale condannato da Diocleziano ad essere suppliziato, trafitto dai soldati con le frecce “finché non apparve uguale a un istrice”, come si legge nella Legenda aurea di Iacopo da Varagine (1228-1298). Ben altra immagine di Sebastiano al martirio ci offre Antonello da Messina che realizza tra 1478 e 1479 il dipinto oggi conservato a Dresda presso le Staatliche Kunstsammlungen.

Solo cinque frecce hanno penetrato l’intatto corpo di Sebastiano carezzato da Antonello, e poche gocce purpuree ne colano. Sono tiri scoccati da angolature diverse. Mire che invitano volta a volta il nostro sguardo a considerare traiettorie plurali e non univoche. Esse si attestano come punti segnati nei giuochi prospettici sghembi, nelle linee portanti che costituiscono la mirabile composizione spaziale secondo fughe incrociate e oblique distanze. Un Sebastiano che pare evocare Apollo il dio delle perfezioni in equilibrio.