Stampate la leggenda, era la celebre battuta di Chi ha ucciso Liberty Valance, emblema della manipolazione della storie e della Storia per fini che si vorrebbero edificanti e finiscono per essere il più delle volte oscuri. Negli anni Duemila, epoca di internet assai lontana dal selvaggio west, stampare la leggenda diventa più difficile anche se questo non è certo garanzia di verità.

La vicenda del sette volte campione del Tour de France Lance Armstrong è piuttosto esemplare dell’esatto contrario: come demolire una leggenda, scagliata dal podio di ciclista tra i più forti di tutti i tempi al malvagio vertice di un sistema esteso di doping e corruzione. O meglio di un «programma» – The Program, come recita il titolo del film di Stephen Frears sul campione texano ormai spogliato di tutti i suoi titoli.
Il programma in questione è quello smascherato nel libro Seven Deadly Sins: My Pursuit of Lance Armstrong dal giornalista sportivo David Walsh, altro protagonista del film, che «non si beve» l’improvviso exploit del velocista Armstrong sulla durissima salita del Sestriere in quel Tour del 1999 che fu poi il primo della sua lunga serie di vittorie ininterrotte.

«Non sapevo nulla di ciclismo – dice il regista inglese – sono solo stato attratto da quello che scrivevano i giornali». Quando cioè sotto ai piedi del ciclista si è aperta la voragine delle inchieste e delle confessioni dei compagni di squadra che hanno gettato luce sul complesso ed efficientissimo sistema di doping che seguiva non solo Armstrong ma tutto il suo team, il cui scopo era proteggerlo fino alla volata finale. Uomo nell’ombra, il medico italiano Michele Ferrari – «so solo che lo chiamavano Nosferatu», dice Frears – responsabile sia della somministrazione delle sostanze dopanti che ideatore degli artifici per nascondere la loro presenza nel sangue. «Ho letto il libro di Tyler Hamilton che era in squadra con Armstrong e si è dopato insieme a lui, e ho trovato estremamente interessante la storia di un uomo che per sette anni consecutivi ha rubato il titolo».

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Armstrong è interpretato da Ben Foster, che per prepararsi al ruolo ha addirittura assunto le stesse droghe, «sotto stretta supervisione medica». Ma il ciclista americano, racconta, non lo ha voluto incontrare: «Ho provato a contattarlo per poter raccogliere più informazioni possibili, mi ha fatto capire di non essere interessato a parlarmi». Il regista, invece, non l’ ha nemmeno cercato: «Non ho idea se abbia visto il film, non mi interessava avvicinarlo perché tanto è un bugiardo e anche un manipolatore per cui certamente non avrebbe gradito».

Ed è proprio di questa la visione che risente The Program, in cui Armstrong è piuttosto bidimensionale nella sua vocazione al falso, alla vittoria a tutti i costi, alla sopraffazione; persino mediocre, un decente velocista portato in vetta dalla droga e da quella soltanto. Nessun momento scava in profondità nella sua vita, le sue ambiguità, le sue radici – lui ragazzo povero del Texas divenuto eroe nazionale di fama mondiale dopo aver sconfitto il cancro. «Non mi interessavano i dettagli della sua vita personale e domestica. Non volevo fare un biopic ma una crime story», spiega Frears. E aggiunge: «Voi siete italiani, mi ricordo quando eravate voi a fare i film che denunciavano la corruzione su vasta scala, come Il caso Mattei o Cadaveri eccellenti».

Che proprio di un crimine su vasta scala si parla nel film, di « una cospirazione del silenzio» in cui tutti erano coinvolti e di cui Armstrong è stato il capofila ma anche l’occasione con la quale lavarsi la coscienza per iniziare una nuova era costruita sulle espiazioni eccellenti, soprattutto negli Stati Uniti dove un atto di dolore nel salotto di Oprah Winfrey è l’unica via per l’assoluzione.
Su un punto Frears appare d’accordo: la vita di Armstrong è contraddittoria. «Era contemporaneamente molto intelligente e molto stupido, ha fatto cose orribili ma ha anche raccolto oltre mezzo miliardo di dollari per la ricerca contro il cancro».

Eppure tutto ciò trapela poco in The Program che, appunto, non si interessa alle «dietrologie»: «In Quarto potere c’era sì lo slittino – osserva il regista – ma anche Orson Welles non sopportava che tutto venisse ricondotto a una motivazione psicologica». Così come la storia di un antieroe certamente non si esaurisce nel doping.