Mostra del cinema giorno 8. Il Lido comincia  a svuotarsi, cielo blu terso e rumore di trolley, persino Boxol il tanto vituperato sistema di prenotazione è diventato più facilmente accessibile. Ci sarà poi la folla dell’ultimo giorno, i veneziani che arrivano cercando di sbirciare il tappeto rosso dei Leoni d’oro dietro al muro a cui la Mostra è obbligata per le misure sanitarie ma  tra gli accreditati ce ne è più di uno che è partito già.

Non è però  un effetto della pandemia, funziona così da qualche anno, almeno da quando sono tornati i grandi film americani la cui agenda prevede subito dopo la Mostra  un passaggio al festival di Toronto, appuntamento fondamentale per il mercato Usa costringendo così il festival veneziano a una griglia che concentra (quasi) tutto nel primo fine settimana. La conseguenza è appunto questo effetto svuotamento – anche nella programmazione – cosa che capita meno altrove:  a Cannes o alla Berlinale coincide con la fine del Mercato del film (di solito un paio di giorni prima della premiazione)- a Venezia però il mercato non c’è (storicamente) almeno a quei livelli – e  il  calendario  non prevede altri festival vicini di uguale peso, e ha un diverso rapporto con le uscite di mercato.

Peccato perché poi chi arriva alla fine nella selezione ufficiale  – diverso è il discorso per le altre sezioni dove l’equilibrio è assai più dosato – rischia l’effetto «riempitivo» – pensiamo che oggi in gara c’è il film di Erik Matti, filippino, durata 4 ore che temo in pochi vedranno anche se è stato presentato come un film molto bello. D’altra parte Venezia ha riconquistato prestigio grazie a questo, basta leggere quanto la stampa dell’industria americana («Variety») scrive sull’argomento sottolineando come  il debutto a Venezia coincide con le vittorie nella corsa agli Oscar degli ultimi anni.

Intanto sono già iniziate le scommesse sui premi: chi sarà il Leone della giuria guidata dal presidente (Palma d’oro e Oscar con Parasite) Boong Joon-ho? Qualcuno giura che Sorrentino è già tornato sul Lido – sarebbe strano visto appunto che la competizione ancora non si è chiusa – ma è certo che il suo È stata la mano di Dio – sarà su Netflix dall’1 dicembre – è stato da subito tra i più quotati.

Ieri doppio programma di «genere»: Halloween Kills, omaggio a Jamie Lee Curtis che ha ricevuto il Leone d’oro alla carriera, e che insieme a John Carpenter ne è produttrice oltre che protagonista, altrimenti non ci sarebbe motivo di  presentare qui questo nuovo capitolo della saga firmato da David Gordon-Green, sbiadito come la maschera dell’Uomo nero Michael Myers sempre a caccia di Laurie Strod (Curtis),  e le allusioni  politiche -l’America di Trump mai finita, la sua violenza interna, l’assalto a Capitol Hill – molto posticce.

E Freaks Out, il ritorno di Gabriele Mainetti sei anni dopo il successo di Lo chiamavano Jeeg Robot con una storia d’epoca – siamo a Roma durante l’occupazione tedesca  nel 1943  – e di supereroi,  persone «speciali»  che  si sentono a disagio coi loro poteri; qualcuno li chiama  «doni» loro come la giovane Matilde (Aurora Giovinazzo) che in sé concentra un alto voltaggio – impossibile sfiorarla senza rimanere fulminati – «una maledizione».

Seguendo l’orginale Freaks di Tod Browning, fonte dichiarata di ispirazione,  siamo in un circo, il Circo Mezza Piotta  guidato da Israel (Giorgio Tirabassi) che gira per i paesini con i suoi quattro artisti nell’Italia sconvolta dalla guerra:  l’uomo-lupo, Fulvio  (Claudio Santamaria), l’uomo-calamita Mario (Giancarlo Martini),Cencio,  un ragazzo che sa giocare con le api e gli insetti in genere  (Pietro Castellitto) e appunto Matilde che accende lampadine con le labbra.

Non ci sono animali chiusi in gabbia, leoni maltrattati, scimpanzé invecchiati, elefanti tristi in questo circo: solo meraviglia e musica, queste persone che vivono assieme come una famiglia ciascuno col suo passato dolente e misterioso. La guerra però non perdona, il circo viene distrutto in un bombardamento che uccide il pubblico, adulti e bimbi. Israel vuole scappare in America, è ebreo, sa che per lui è un pericolo mortale rimanere lì, ma loro hanno paura: che fare in America? Quale futuro per chi si sente solo un «fenomeno da baraccone» fuori dal circo?

Piuttosto come decide Fulvio quando l’impresario scompare meglio rifugiarsi nel grande circo nazista di Franz  – musicista dotatissimo e crudele, che sa vedere avanti nel tempo  e amplia le sue facoltà abusando di etere. Lui li vorrebbe come macchine da guerra per il nazismo, li sta anzi cercando ovunque ma loro non lo sanno.  In quel circo di croci uncinate  gli spettacoli sono  tradizionali, fanciulle bellissime, animali addestrati, e la musica del futuro  U2 compresi  che Franz suona – è il bravo Franz Rogowski  mai così fuori parte.

È questione di scelte, e se i tre maschi si fanno incantare, Matilde decide di fuggire e incontra i partigiani, un gruppo scassatissimo che pare uscito dalle illustrazioni tradizionali di Pinocchio guidato da «Il gobbo» (Max Mazzotta). La fiaba è senz’altro uno dei riferimenti di Mainetti in questo che  definisce «un romanzo di formazione» un po’ alla Tarantino Bastardi senza gloria versione romanesca, con la stessa ambizione di riscrivere  la storia nella cifra del fantastico – e del desiderato.

Tra molte citazioni    l’«obbligata» Roma città aperta e, per rimanere a Rossellini Germania anno zero – Mainetti (sua la sceneggiatura insieme a Nicola Guaglianone) procede rimanendo nell’attrito tra quello che la sua eroina Matilde, la sola dotata davvero di poteri potrebbe fare, e la sua ostinazione a non uccidere nessuno nemmeno i cattivissimi nazisti.Più che X-Men di lotte spettacolari e soprannaturali la sua è  una  ricerca intima, alla  scoperta di sé e dei “veri” poteri che si coltivano con la vita. Potrebbe essere una scommessa fantastica ma finisce per perdersi tra le sue molte piste, in quell’accumulo di postmodernità che ne taglia il respiro.