«Faccio questo, faccio quello»: suona così la formula più sfruttata lungo gli anni per dire dello stretto rapporto che la poesia della Scuola di New York ha avuto con la quotidianità, l’autobiografismo, e la presa sul reale, da parte degli intellettuali che ne erano parte, attivi all’interno di uno stretto e vorticante lembo geografico, avanguardistico e ambiziosamente innovativo degli Stati Uniti del dopoguerra.

Lo ricorda e lo discute estensivamente Daniela Daniele, attenta curatrice di un recente volume, Inni di St. Bridget (Mimesis, pp. 152, € 22,00) firmato a quattro mani da Bill Berkson e Frank O’Hara, proponendoci in traduzione italiana una serie di testi che datano dal 1960 al 1964. Quando Donald Allen compilò la sua storica antologia sulla nuova poesia americana, nel 1960, non si limitò a storicizzare i grandi poeti delle passate generazioni (Wallace Stevens, Ezra Pound, Elizabeth Bishop e Kenneth Rexroth) ma catalogò anche tutti quelli che da est a ovest avrebbero rappresentato la nuova scrittura americana: i poeti del Rinascimento di San Francisco, la Black Mountain School, la New York School, e altri.

Di quel gruppo di New York, ciò che più fece impressione fu la smodata attrazione iniziale per il Surrealismo, l’afflato colloquiale e apparentemente anti-accademico, la velocità della scrittura e la stretta collaborazione-amicizia con eminenti artisti, tra i quali Larry Rivers, Robert Motherwell, Jackson Pollock, Grace Hartigan, Mike Goldberg, Jasper Johns, Franz Kline, Norman Bluhm, Joe Brainard.

Sarebbe oggi ozioso indicare se toccò a Kenneth Koch, John Ashbery o Frank O’Hara fare da guida a quel movimento poetico che investì un largo campo d’azione artistico, ricomprendendo musica, danza, arti figurative, oltre alla poesia. Di fatto, la scrittura di O’Hara e degli altri poeti di New York entrò subito in polemica con quanto stava succedendo a San Francisco, e zone limitrofe, anche se poi un intellettuale-poeta-impresario come Lawrence Ferlinghetti, morto da pochi giorni, riuscì a pubblicare sia gli uni sia gli altri nella storica collana della City Lights.

Inni, campanili, canzoni
Di quella divergenza ideologica e stilistica O’Hara parlava, già nel 1961, in un articolo polemico – «Personism: a manifesto» – sfacciatamente ironico e parodistico, in cui rinnegava ogni ambizioso volo metafisico» e «negativo», e ogni ipotetica nostalgia dell’infinito che non prevedesse un’astrazione autentica nei confronti dei dettagli quotidiani. La presa di posizione di O’Hara è utile per capire quanto fosse importante basare lo stile poetico su una varietà di argomenti, situazioni, personaggi e disparate occorrenze che si prestino al flusso del poetare.

Come in John Ashbery, e prima e dopo di lui, la poesia di O’Hara si è mossa tra incontri, ricevimenti, celebrazioni, inaugurazioni, concerti, viaggi, e pasti consumati tra il Cedar Tavern e il Moma, tra gallerie d’arte e club esclusivi, case private e istituzioni pubbliche, viaggi in aereo e in treno, passeggiate in strada.
Daniela Daniele ci ricorda come, al momento della compilazione dei Collected Poems of Frank O’Hara, lo stesso Allen avesse rinvenuto parecchie poesie dentro libri, tasche di giacche e pantaloni, lettere ad amici, a riprova di una scrittura esercitata anche a tavola – noti e ormai storicizzati sono i suoi Lunch Poems, del 1964, tradotti e curati in italiano da Paolo Fabrizio Iacuzzi per la collana mondadoriana di poesia, o mentre O’Hara viaggiava, o partecipava a discussioni e convegni.

Nel volume, sono contenuti versi scritti «Nel Metrò», resoconto d’una giornata trascorsa con John Ashbery («la stagione/ teatrale è ancora più grandiosa/ quando sotto i riflettori le comparse/ sono più vicine/ e riesci a guardarle meglio/ soprattutto se sei accanto alle luci e al ritmo»); o un altro testo sull’andare a teatro («Appunti dalla fila L»); o ancora, la pièce teatrale «Volo 115» in cui O’Hara e Bill Berkson giocano a rimbalzarsi il testo, sviluppandolo come si farebbe con un renga.

Ma il pezzo forte del libro è proprio la sequenza dedicata a St. Bridget, il quartiere nell’East Village dove O’Hara scelse di vivere, e una chiesa dove, con tutta probabilità, i due poeti non entrarono mai, ma che ben rappresentava il loro angolo di mondo, insieme ai princìpi religiosi che avrebbero più volte irriso. Il quartiere di St. Bridget si anima così di inni, campanili, canzonette fuoriuscite dalle radioline a transistor, e di personaggi come William De Kooning e Philip Guston, uno sfondo perfetto da tradurre in poesia e in prosa lirica. Questa serie di improvvisazioni che, come annota Daniela Daniele compongono «disarmoniche visioni … prendono ora la forma della recensione di un balletto, ora quella di un litigioso carteggio tra due presunti fratellastri, fino al frammento di racconto erotico che (con la partecipazione di Patsy Southgate) chiude quest’agile raccolta in uno spirito decisamente avverso ad ogni censura».

Quando divennero amici, Berkson era molto più vecchio di O’Hara: la loro collaborazione agì da linfa vitale per il poeta già affermato e da trampolino per il giovane scrittore, che avrebbe poi lavorato con l’amico, a più riprese, per l’allestimento di mostre, cataloghi, e retrospettive d’arte visuale. Lo ricorda lo stesso Berkson nel video di Daniele Pomilio, allegato agli Inni di St. Bridget, un vero e proprio documentario giocato sulla voce del poeta che si racconta, introduce, e legge uno spaccato della storia di quegli anni avvicinando, nella splendida cornice dell’Art Park di Verzegnis, molti giovani studiosi a un mondo ormai quasi del tutto scomparso.

Lo stile degli inni è scorrevole, colloquiale, e al tempo stesso dotto e citazionista, pieno di improvvisazioni e di collage, a tratti surreale e a volte gestuale, mai refrattario a una terminologia sconcia e garbatamente pornografica. Ci si rintraccia facilmente non solo la prima scrittura del grande John Ashbery, ma di colui che per Ashbery era stato un maestro, W.H. Auden, e di tutta la scrittura sperimentale e surrealista della Parigi in cui lo stesso Ashbery aveva vissuto, e che qui risucchia anche Berkson.

Un ricordo personale
Nel 1998, accompagnai John Ashbery (per il lancio della prima traduzione italiana di Flow Chart, a cura di Paolo Prezzavento, edita da Bradipo) in un tour italiano, a pochi giorni dalla morte del suo amico Pierre Martory – figura strategica per tutti gli scrittori della New York School: il nome di O’Hara, e di altri suoi amici di New York, veniva spesso fuori durante le nostre conversazioni. Solo più tardi mi resi conto che quanto Ashbery mi stava dicendo di tutte quelle ambizioni, dei valori, delle idee ma anche delle delusioni del loro gruppo immerso in un mondo svilito dall’inessenziale – lo aveva già scritto per i Collected Poems of Frank O’Hara nel 1995, osservando dell’amico: «Nelle poesie che avrebbe scritto in tutto il resto della vita – a partire più o meno dal 1954 e fino al 1966, l’anno della morte – questo idioma guadagnò terreno, plasmando le sue capacità, per altro già notevoli, verso una poesia nuova e ancor più eccezionale – dimessa e insieme monumentale, dotata di un’utilità intrinseca – e non solo per tutti i poeti in cerca di una voce propria ma per i lettori che si rivolgono alla poesia come all’ultima risorsa in grado di tramutare le contraddizioni della vita moderna in qualcosa che possa assomigliare a uno spazio abitabile».