Ha debuttato nella sua forma completa (al teatro Basilica), dopo il «saggio» dello scorso anno come vincitore di un premio di drammaturgia, un testo dai caratteri fuori della norma. Ion (scritto e messo in scena da Dino Lopardo) racconta una storia familiare, ma lontana dagli stilemi borghesi cui siamo abituati sulla scena: è la storia di due fratelli, e del loro rapporto, nel profondo sud, in una oscura Lucania spesso notturna. Ma, soprattutto, la caratteristica più forte e centrale di questo spettacolo sta in un rigoroso dialetto lucano, oscuro quanto fascinoso nella sua fonetica arcaica.

NON MANCANO certo, anche nel più recente e interessante teatro italiano, esperienze «sudiste» di grande fascino e autorevolezza, da Spiro Scimone a tanta drammaturgia napoletana, a qualche esperienza sarda. Ma il suono lucano non era mai esploso sul palcoscenico (mentre in poesia scatta almeno il ricordo di quella «in dialette tursitane» del grande Albino Pierro) con tanta pregnanza e motivazione. Il rapporto tra i due fratelli (quello poetico e svagato, omosessuale, religioso quanto amante dell’arte, e l’altro più realista e «lavoratore» che lo mantiene, e privilegia nella vita la concretezza) vive nel conflitto mediato solo dalla figura della madre morta. Un bel congegno linguistico e sociale, che sostiene un solido nucleo drammaturgico. A giocarselo in scena sono Alfredo Tortorelli e Andrea Tosi, con Iole Franco quale evocazione della madre.