La critica del capitalismo vive attualmente un periodo di boom. Lo scorso settembre perfino il Financial Times ha intitolato la sua copertina «Capitalism. Time for a reset». Ma se anche l’organo della buisness comunity internazionale è giunto a sdoganare l’uso del termine capitalismo e la sua critica, ancora più impellente diventa compiere un’operazione di rigorosa chiarificazione concettuale. Che cosa s’intende oggi con capitalismo? Quali e quante sono le sue crisi? E in vista di quali trasformazioni politiche lo critichiamo? Per rispondere a questi interrogativi – e per delineare una piattaforma teorica e politica autenticamente radicale – la filosofa statunitense Nancy Fraser e la filosofa tedesca Rahel Jaeggi hanno dato avvio a un fitto scambio intellettuale. Ne è nato un libro da poco pubblicato anche in Italia, ricco di elementi di originalità e d’interesse. (Capitalismo. Una conversazione con Rahel Jaeggi, Meltemi, traduzione italiana di Veronica Ronchi).
Partiamo da una definizione «ortodossa» di capitalismo, esordisce Jaeggi sollecitando Fraser, e poi proviamo a de-ortodossizzarla, fino a guadagnare una visione ampia della natura delle società in cui viviamo. Il capitalismo è certo un sistema storico di organizzazione dell’economia.

CON MARX – E CON WEBER – lo possiamo ancora oggi definire nominando quattro caratteri di fondo: la proprietà privata dei mezzi di produzione; la mercatizzazione e la mercificazione del lavoro salariato; la tendenza a utilizzare il capitale in vista del profitto anziché dei bisogni; l’utilizzazione del mercato come meccanismo di coordinamento non solo per la distribuzione dei beni, ma anche per l’allocazione dei fattori della produzione (lavoro, risorse naturali, credito in denaro) e delle risorse collettive in surplus.
Questa definizione tuttavia non basta. È necessario fare luce sulle condizioni di possibilità nascoste di questa economia, reiterando il gesto che Marx ha compiuto quando ha riorientato lo sguardo dallo scambio di merci alla produzione in fabbrica e da questa all’accumulazione originaria. Oltre che dalle enclosures, spiega Fraser seguendo Karl Polanyi, il capitalismo nasce da un processo di disancoramento dell’economia dal suo ambiente sociale e naturale che non ha precedenti storici. Divisa istituzionalmente dal resto della società, l’economia continua a dipendere però dalle pratiche e dalle istituzioni poste fuori dal mercato, di cui ha bisogno per incrementare la sua crescita senza fine, ma che tratta come se fossero riserve senza fondo, quando in realtà non lo sono. Sono in particolare tre le condizioni di sfondo che il capitalismo, come un cane che si morde la coda, tende contraddittoriamente a mercatizzare e con ciò a destabilizzare: il lavoro affettivo e materiale della «riproduzione sociale», nella maggior parte dei casi svolto dalle donne; le funzioni militari e di governo dei poteri pubblici, che assicurano l’intelaiatura istituzionale del mercato e la divisione coloniale del pianeta; infine l’ecosistema naturale.

LE SOCIETÀ CAPITALISTICHE sono attraversate, quindi, da altre contraddizioni oltre a quella economica tra capitale e lavoro: una «contraddizione sociale» tra la logica pressante della produzione di valore e il bisogno di una riproduzione sociale che garantisca anche solo la generazione di nuova forza-lavoro; una «contraddizione politica» tra gli imperativi alla privatizzazione di ogni settore e il bisogno di poteri pubblici robusti; una «contraddizione naturale» tra l’espropriazione delle riserve naturali e l’esigenza di equilibri ecologici. Il capitalismo finanziarizzato oggi traduce tutte queste tendenze contraddittorie in vere e proprie crisi: non solo quindi crisi dei salari e discoccupazone, ma anche crisi della cura, crisi della democrazia, crisi ecologica. Quali alternative abbiamo dunque a disposizione?

LA BUONA NOTIZIA di questo approccio neo-polanyiano al capitalismo è che non esistono soltanto le lotte politiche dentro i rapporti economici – il conflitto capitale/lavoro – ma anche le lotte sui confini che delimitano l’economia dalla società, dalla politica, dall’ecologia. Queste «lotte di confine e sui confini» sono anche lotte anti-capitaliste, nella misura in cui possono inceppare la logica di accumulazione capitalistica, sbarrando la strada all’estrazione continua di valore non pagato dai tessuti comunitari, dalle funzioni dello stato democratico, dagli ecosistemi naturali. E tuttavia, come i populismi autoritari del presente ci mostrano, le lotte in nome della «protezione sociale» possono andare a braccetto anche con progetti volti a rafforzare le gerarchie culturali interne alle comunità, e alla fine allearsi con il neoliberismo. Per fermare la logica (auto-)distruttiva del capitalismo, bisogna quindi puntare anche sulle lotte per l’«emancipazione», portate avanti dai movimenti anti-razzisti, antimperialisti, pacifisti, dal femminismo, dal movimento di liberazione Lgbt, dal multiculturalismo.
La sfida è dunque quella di strappare questi movimenti dalla possibile alleanza con la mercatizzazione, come è avvenuto durante gli anni del «neoliberismo progressista» e della Terza via. Bisogna creare una nuova alleanza tra le lotte per la protezione sociale e quelle per l’emancipazione, sotto le insegne di un inedito «populismo progressista»: un blocco sociale contro-egemonico, capace di preparare il terreno per la vera e propria sfida, quella per un «socialismo democratico».