Non sono particolarmente interessata alla vera identità di Elena Ferrante; sarebbe stato più gentile non inseguire in ogni modo la possibilità di rivelarla, ma questi sono i tempi e la società dello spettacolo non perdona nessuno, non parlarne più sarebbe già una buona idea per non partecipare al banchetto. Del resto chi ha letto La frantumaglia, anni fa, oppure ora, nella nuova ristampa, può camminare al fianco della scrittrice su molti temi che le sono intimi e cari, che la rivelano nelle sue esperienze e riflessioni quel tanto che basta per tornare ai suoi romanzi con maggiore consapevolezza, e strumenti più raffinati di lettura, tali da duplicarne il piacere. Ed è questo quel che conta. Lì Elena Ferrante afferma, con molti buoni argomenti, che la scelta dell’anonimato corrisponde al suo bisogno di «uno spazio di libertà creativa assoluta», di quella «distanza tra autore e libro» che impedisce l’impasto del «primo con i materiali del secondo e viceversa». E si potrebbe continuare, tra molte citazioni.

Delle due pagine che il Domenicale del Sole 24ore del 2 ottobre ha dedicato alla scrittrice Ferrante, dunque, l’unica cosa che mi è parsa davvero suggestiva è la ricostruzione pubblica della vita della madre di Anita Raja, anche se spero che proprio questo non sia motivo per lei di inquietudine. Ricostruzione suggestiva anche e soprattutto per quel che non dice. Da quando ho cominciato a studiare e amare i libri di Christa Wolf, ho cominciato ad ammirare la magnifica capacità che ha avuto la sua traduttrice italiana di renderli, ricrearli, nella nostra lingua. Una grande traduttrice che segue una grande autrice in ogni piega, felice o dolorosa, di tutta la sua vita intellettuale e artistica, passo passo, con una tensione mai attenuata verso la comprensione più profonda possibile, con una cura precisa e affilata del suo dettato.

Traduzioni impeccabili, mirabili? È ancora dir poco, tale era la relazione che si sentiva scorrere, in modo vitale, tra l’una e l’altra, tra una lingua e l’altra, tra due mondi, l’Est e l’Ovest, illuminati da una vera empatia che, senza altre mediazioni, arriva dritta a chi legge e spalanca una molteplicità di significati. Del resto, credo che tradurre sia una delle forme nascoste della critica letteraria, ed è certo così quando è a quest’altezza. Ora, sapere dal racconto di Claudio Gatti che la madre di Anita Raja era un’ebrea sfuggita al nazismo, riparata dopo la tragedia a Napoli, dove si era sposata e dove, a 53 anni, si era rituffata «nella lingua dei suoi parenti (e dei suoi persecutori), il tedesco», illumina la vicenda di queste due grandi «amiche», Christa e Anita, di una luce in cui la traversata del dolore che diventa bellezza creativa può essere guardata in una prospettiva diversa. Non in quella di un biografismo fine a se stesso, ma in quella in cui a parlare le lingue è una radice materna che proprio nella lingua, nelle lingue, dà i suoi frutti migliori.