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Frank Zappa, irriducibile guastatore

Frank Zappa, irriducibile guastatoreLa copertina di «Sheik Yerbouti», l'album del 1979 di Frank Zappa

Anniversari/Trent'anni fa moriva uno dei più influenti artisti del Novecento Personalità sempre fuori dagli schemi, considerava i media l’arma più pericolosa e letale in mano ai potenti

Pubblicato 10 mesi faEdizione del 2 dicembre 2023

Trent’anni fa, il 4 dicembre 1993, moriva Frank Zappa, uno dei più grandi artisti del secolo scorso. Morì ancora giovane, a 52 anni, per un cancro alla prostata. Il comunicato della famiglia che annunciava il decesso diceva che «il compositore Frank Zappa è sceso per l’ultima volta dal palco». Il fenomeno Zappa si era palesato trent’anni prima, il 14 marzo 1963, quando allo Steve Allen Show si presenta un timido ventiduenne italoamericano con i capelli corti e l’aria da tranquillo e rassicurante crooner di provincia. Ma è tutta apparenza: il ragazzo annuncia l’intenzione di suonare due biciclette. E lo farà, nello sconcerto generale, ricavando suoni impensabili dalle gomme, dai pedali, dai raggi delle ruote. Una performance aliena e folgorante, decisamente inusuale per l’epoca, in cui Zappa dimostra di avere già idee molto chiare sulla sua missione musicale e sui futuri bersagli della sua arte: le convenzioni borghesi, la prevedibilità, i luoghi comuni che ci risparmiano la fatica di pensare, su cui presto innesterà una critica radicale alla morale dei benpensanti e all’ipocrisia del sogno americano. Ma non avrà pietà neanche del fanatismo dei suoi seguaci, delle novità che poi evolvono in manierismi, delle ribellioni che il sistema accoglie e ingloba, fino a renderle innocue, mercificandole e trasformandole in nuovo mainstream.

DEDIZIONE AL LAVORO
Questa era la concezione dell’arte di Frank Zappa. Un pensiero sorretto da una preparazione musicale notevole (riconosciutagli da eminenze della musica colta quali Pierre Boulez, Kent Nagano, Zubin Mehta), da un’ostinata ricerca del nuovo, da un lavoro maniacale vissuto con dedizione quasi ascetica, in appagato contrasto con atteggiamenti sprezzanti e trivialità lessicali spesso oltre il limite della volgarità. L’opera zappiana è una vertiginosa summa che aspira a contenere il mondo. Mastica, sputa, deforma, sbeffeggia, reinventa la realtà, senza permettersi cedimenti e senza rifiutare la sfida della complessità.
A Zappa è d’obbligo attribuire il termine di artista più che di musicista, anche se Zappa è stato uno dei fenomeni musicali più strabilianti degli scorsi decenni, dai primi 45 giri fra il 1962 e il 1963, fino agli ultimi lavori, The Yellow Shark e Civilization Phaze III, portati a termine in una corsa estrema con la malattia. Va definito artista perché ogni volta che apriva bocca tartassava il mondo, i potenti, la cretineria endemica, che lo spingeva a polemizzare burlescamente con gli scienziati convinti che l’idrogeno fosse l’elemento più diffuso in natura. L’universo obiettava «is plenty of more stupidity than hydrogen»: c’è in giro molta più stupidità che idrogeno. Da questo assunto nasceva il suo amore accanito, forse sarebbe meglio dire la fissazione, per quello che definiva «antropologia sociale». Decine e decine di pagine, e canzoni, dedicate all’infinita tipologia degli stupidi o dei fuori zucca che caratterizzano a tutti i livelli la società moderna. Era questa disillusione, questo fondo amaro e congenitamente avverso a ogni potere costituito, a nutrire la sua musica e a fare di lui un artista di un rigore e di una coscienza lucidissimi; un dito puntato contro guerra, droga, regimi, moralismo, fascismo, consumismo, show business, musica accademica. E contro un sistema dell’informazione e dei media che considerava l’arma più pericolosa e letale nelle mani del potere, tanto da spingerlo a battagliare tutta la vita per farsi una propria casa discografica. Nel 1967 l’uscita del suo secondo album, Absolutely Free, venne bloccata dalla casa discografica Mgm perché sul retro di copertina c’era una scritta che campeggiava sopra una bandiera a stelle e strisce, sormontata a sua volta da un fungo atomico. La scritta, probabilmente la più azzeccata definizione di cosa rappresenta il complesso militar-industriale che domina gli Stati Uniti, diceva «War means work for all», la guerra significa lavoro per tutti. Stava in mezzo ad altre scritte nelle quali ritornava ossessivo, in caratteri cubitali, soprattutto un imperativo: «Buy!». Alla fine quella scritta sulla guerra rimase, ma rimpicciolita e con un colore che la rendeva appena appena visibile.

SCORRETTO
Zappa era irriducibilmente scorretto nella sua visione della società, della politica, della morale sessuale, che considerava il tabernacolo del potere e per questo ne faceva uno dei suoi bersagli preferiti, con inevitabili scandali e denunce a non finire. Autodidatta isolato, cresciuto in provincia coltivando un suo culto dell’anticonformismo, Frank è un ragazzino che si innamora della musica di Varèse forse perché fa inorridire sua madre. È proprio la madre che lo aveva avvicinato alla musica quando a 14 anni gli regala un tamburo rullante, per poi restare tutta la vita infastidita dalle composizioni del figlio. Come darle torto? La musica di Frank Zappa (e l’immaginario visivo che porta con sé) sono un saggio sui meccanismi teorici del disgusto. È il freak nella sua veste più radicale: ascoltandolo e guardandolo ci si divide. E mentre istintivamente ti schieri a favore, già sai che altri lo troveranno rivoltante. Zappa raduna così i suoi estimatori, folgorati dalla sua eccezionalità. E insieme ad essi, come ha scritto Jonathan Jones, mobilita anche un tipo particolare di ascoltatore, «the paranoid listener» capace solo di vederlo in chiave sovversiva, pornografica, deviante. L’ideologia ha fatto dunque di Zappa un guastatore, occultando la sua natura costruttiva, ossia di compositore nel senso forte del termine. Non poteva essere diversamente, perché la scrittura di Zappa, quel suo mix di plebe e di aristocrazia, implica una critica radicale dei due pilastri su cui si fondano il colto e il popolare. Fra le sue mani il pop richiede capacità tecniche al limite dell’umano, mentre la musica seria va a farsi un giro al luna park. Opzioni che finora sono rimaste distanti per gli uni e per gli altri. Dell’opera zappiana soprattutto il rock non ha saputo farsene granché. Forse perché non è quello il recinto dove può essere circoscritto il lascito dell’artista italoamericano: più passa il tempo e più ci si accorge che le sue armonie, i suoi ritmi, le sue staffilate sonore, la sua narrazione intrisa di nonsense assumono contorni sempre più autorevoli, quasi da soggezione.

LA FORZA DEI LINGUAGGI
Zappa va preso nella sua complessità, e va seguito per le sue strade, anche se qualche volta appaiono incoerenti e contraddittorie. La sua grandezza sta anche nell’aver mescolato linguaggi diversissimi e nell’aver praticato, senza distinzioni alto-basso, la ricerca musicale e l’umorismo da cabaret, il rock heavy e il vintage doo-wop, accostando Stravinsky con le Supremes, le Ionisations di Edgard Varèse e Stairway to Heaven dei Led Zeppelin. E in questo suo percorso è stato inflessibile e ci ha sempre detto: prendere o lasciare. Tutto insieme. Gli album storici e le sproporzioni chitarristiche, le battaglie contro le case discografiche e i pasticci da indipendente, le campagne per la libertà di manifestazione del pensiero e certe proteste ai limiti del qualunquismo. Alla fine la sua originalità e l’indipendenza, fuori da ogni convenzione o moda, lo accomunano ad altri isolati visionari del Novecento americano – John Cage, Sun Ra, Ornette Coleman, Tom Waits. Non sono i più acclamati dalle folle ma sono quelli che vedono lontano e hanno i pensieri più forti, e sono loro che alzano l’asticella della musica, anche se non ce ne accorgiamo subito.

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