Josip Stalin aveva una passione maniaca per gli artisti e in specie per gli scrittori, di cui seguiva ossessivamente vite e opere, premiando i più adulatori e castigando crudelmente chiunque non rientrasse nelle sue vedute. Il 26 ottobre del 1932 si presentò di sorpresa a un raduno di scrittori voluto e coordinato da Maksim Gor’kij, autore che identificava come proprio portavoce, araldo della rivoluzione negli anni ultimi dello zarismo. In questo raduno il dittatore comunicò che i facitori di storie avrebbero dovuto assumere un ruolo scientifico, contribuendo alla formazione del nuovo uomo sovietico, e diventando, quindi, Ingegneri di anime: è questo il titolo di un notevole libro di Frank Westerman, uscito nel 2002 in Olanda, (già edito da Feltrinelli nel 2006) e ora riproposto da Iperborea (nella vivace traduzione di Franco Paris, pp. 320, € 18,00). Questa ricerca nomade nel mondo delle icone russe novecentesche è nata nel tempo in cui lo scrittore era inviato in Russia (l’autore è ossessionato dalle mappe: narra nell’introduzione come alle elementari non potesse staccare gli occhi da quelle mute, in cui il maestro chiedeva i nomi delle capitali). Perciò, è folgorato dalle continue e spesso inverosimili manipolazioni della geografia sovietica, che rifiutava per strategia di rendere visibili le città in cui si lavorava l’uranio e il plutonio.

L’analisi della lingua dei piani quinquennali individua obiettivi ribaditi fino alla follia dalla propaganda, obiettivi che sembrano paradossali, come la dichiarazione di guerra al deserto le cui «crudeli leggende avrebbero lasciato il passo all’industria socialista».

Westerman analizza un progetto di politica narrativa, che non vuole riconoscere in alcun modo le limitazioni con cui il governo sovietico doveva fare i conti. In questo senso è esemplare il lavoro di indagine sul Kara-Bugaz di Kostantin Paustovskij, libro del 1932 che dette al suo autore il ruolo di reporter delle glorie scientifiche sovietiche (edito in Italia nel 1960 con il titolo Il mare di vetro). L’argomento è la celebrazione di un impressionante complesso industriale sulla costa orientale del Mar Caspio, nato per sfruttare come mai prima era accaduto le risorse di un luogo impervio. Collocato in un golfo di cui nessuna mappa registrava l’esistenza, motivò il viaggio verso quelle che nella lingua locale si chiamano «fauci nere». Le carte geografiche di cui scrive sono tanto quelle dei luoghi, che la struttura del corpo (su cui rifletteva nell’altro suo titolo di grande rilievo, El negro e io, cronaca della folgorazione per un inquietante nero imbalsamato visto in un museo sui Pirenei, di cui ha cercato in ogni modo di ricostruire l’identità).

Il cervello di Gor’kij, subito dopo la sua morte nel 1936, venne consegnato alla scienza: come recitava in modo roboante la «Pravda»: «la conformazione dei solchi e delle evoluzioni sarà conservata per l’eternità».