L’ultimo libro della politologa e attivista antirazzista francese Françoise Vergès arriva in Italia, edito da Ombre corte. Una teoria femminista della violenza. Per una politica antirazzista della protezione (traduzione di Gianfranco Morosato, pp. 150, euro 13,50) segue non solo cronologicamente Un femminismo decoloniale (Ombre corte, 2020 – una intervista su queste pagine un anno prima, ndr) perché sono proprio le conclusioni, potremmo anche chiamarli i passi del pensiero dei femminismi decoloniali e antirazzisti, a scandire quel movimento di riappropriazione culturale che desidera ribaltare la narrazione occidentale del mondo.
Una narrazione per cui le violenze inferte alle donne sono sostenute dal patriarcato, ma in cui Stato e capitale sembrano non avere responsabilità in merito. Per Vergès invece una politica decoloniale e antirazzista della protezione dovrebbe essere «risolutamente anticapitalista e depatriarcalista perché vede in questi regimi il crogiolo della violenza sistemica contro le donne».

RICONOSCERE IL BISOGNO di protezione degli esseri umani non significa rendere i soggetti delle vittime potenziali; riconoscerne la vulnerabilità significa ritenere la debolezza non un fallimento ma il riconoscimento della fallacia di tutta la mitologizzazione costruita attorno all’idea di «corpo performante». Vergès spiega in maniera convincente come questa narrazione del corpo performante non riveli che una porzione faziosa di tutta la storia: le prestazioni dell’uomo bianco, in pieno possesso di una forza fisica normata come maschile, sono consentite da tutto il carico sui corpi razzizzati (il cui lavoro è invisibile perché invisibilizzato). Il nesso di vulnerabilità a cui fa riferimento la politologa è molto lontano dalla pur variegata galassia dei fenomeni di vittimizzazione cui sono soggette le donne: integrare la consapevolezza che il proprio corpo potrebbe e con l’avanzare degli anni sarà inevitabilmente vulnerabile non corrisponde a sentirsi come vittime potenziali di atti di violenza.

Questa stessa vittimizzazione rappresenta a torto, per Vergès, l’unico mezzo per giustificare gli atti di difesa che le donne possono apprendere a compiere per difendersi: «Una donna può uccidere per difendersi ed essere perdonata dalla società e dallo Stato solo se incarna la figura della vittima totale». Citando la filosofa Elsa Dorlin, Vergès guarda invece all’organizzazione dell’autodifesa come a un «processo di riumanizzazione», volto a superare «la paura imposta da secoli di oppressione, di uccisioni, torture, riduzioni al silenzio» e atto a potenziare l’energia necessaria per combattere il dominio e l’oppressione.
«Non si tratta di essere a favore o contro la violenza, ma di respingere la condanna borghese della violenza degli oppressi e di favorire una molteplicità di tattiche e dunque l’autonomia e la flessibilità delle lotte». Per spiegare cosa intende per depatriarcalizzazione e decolonizzazione della violenza, Françoise Vergès elenca il debito nei confronti delle militanti indigene del Centro e Sud America.

TESSENDO UNA RETE di esempi radicati nelle storie di esperienze di comunità e di gruppi di attiviste e attivisti, mostra che un’alternativa alla protezione patriarcale e carceraria è possibile. Quando Vergès afferma che le politiche neoliberiste sono razzializzate non vuole negare che anche le donne non razzizzate siano oggetto di violenze; vuole invece provare a analizzare la protezione dal punto di vista della classe, della razza e dell’eteronormatività mostrando come in questa fase di riattualizzazione necroliberale le mascolinità violente siano al servizio di una politica di morte. E vuole altresì comprendere i limiti del cosiddetto femminismo carcerario e punitivo, prodotto del femminismo universalista e civilizzatore, che secondo Vergès – e la sociologa Elisabeth Bernstein prima di lei – penalizza gli atti senza porsi nella dimensione conoscitiva di coloro che sono criminalizzati.

Come già in Un femmismo decoloniale, lo sguardo di Françoise Vergès non esita a fare riferimento a quella «futurità» che è capace di sfibrare le maglie del pensiero neoliberista, generatore di violenza. Riuscire a cogliere e riconoscere l’intreccio tra rapporti materiali nelle relazioni di dominio consente di avere sguardo su sistemi alternativi in cui la giustizia per le donne significa una giustizia per tutti i soggetti abusati. Questo appello alle feminist futurities è quello che troviamo nella parte finale del saggio di Vergès.

LA STUDIOSA non esita allora a fare riferimento alla letteratura, come bacino ferace in cui ravvisare visioni di mondi alternativi. Prendendo ad esempio il capovolgimento radicale del sistema di dominazione descritto da Naomi Alderman nel suo romanzo Ragazze elettriche (2016), ne coglie i limiti: anche se propone delle soggettività potenti contrarie alle rappresentazioni vittimizzanti delle donne, è il «potere elettrico» di dare la morte all’altro a garantire il rovesciamento sistemico.

Per «vincere la paura senza usare la paura e il terrore, pur abbattendo la dominazione» è invece necessario immaginare il mondo andando oltre l’idea di una violenza speculare. Proprio quello che fa la scrittrice di fantascienza afroamericana Octavia E. Butler nel Ciclo delle Parabole (1993-1998). Fare resistenza per Butler significa infatti creare e ricreare legami affettivi in una società attraversata dalla paura ma non cieca alle utopie di liberazione: «A capo della resistenza, Olamina reinventa ciò che fa famiglia e crea una comunità per – salvare e definire l’umanità». Françoise Vergès tramite Octavia E. Butler vuole mostrare come tale liberazione non possa essere definita nei termini dei pure esaltanti superpoteri individuali, ma piuttosto secondo una dimensione collettiva dell’impegno capace di fare comunità.