Conosce il modo di passare dal suono di sintesi alla verità della natura, interviene sulle voci e crea labirinti musicali in cui si incontrano Monteverdi, PJ Harvey, Rota e i Led Zeppelin. Segue una delle strade più vivaci e fruttuose percorse dal teatro degli ultimi decenni, quello del suono e della musica realizzati da chi accanto al regista sovrintende ai misteri della faccia della luna sonora ineludibile per definire appieno uno spettacolo. La Biennale Teatro omaggia le arti del suono premiando con un Leone d’oro Franco Visioli, figura fra le più significative della scena italiana e europea, con all’attivo fertili sodalizi con Massimo Castri, Thierry Salmon, Ronconi, Stein e da ultimo Antonio Latella. Il premio sarà consegnato lunedì, nel giorno dell’esordio di Visioli nella regia, con Ultima Latet, suo lavoro che prende le mosse dalla Montagna magica di Thomas Mann.

Che reazione hai avuto, è un premio che vedi anche assegnato anche a un’intera categoria spesso rimasta in ombra?
Ho provato una grande sorpresa, perché nel nostro settore ci sono personalità anche più titolate di me come Hubert Westkemper che da decenni sperimentano nel campo dell’elettroacustica. La gioia aumenta al pensiero che sia anche un riconoscimento per una categoria che dietro le quinte contribuisce in modo essenziale allo spettacolo, come i light designer e gli scenografi, per i quali esistono specifici riconoscimenti. Il Leone onora anche il percorso iniziato da registi come Castri e Ronconi, fra i cui meriti c’è l’aver scardinato un sistema che vedeva il suono affidato un po’ casualmente al direttore di scena; spesso agli inizi mi hanno davvero imposto nelle loro produzioni, un aiuto importante.

Partiamo dalla tua formazione.
Il mio mestiere non nasce in Italia, infatti a metà anni ‘80 ho sentito necessità di partire per l’Ohio, per perfezionarmi al Recording Workshop, dove ho impostato la parte del lavoro sull’audio regolata con l’esattezza di una scienza. Spesso consiglio ai giovani, se possibile, di mettere da parte dei soldi e partire: in Germania, in Gran Bretagna o in America, per imparare una disciplina e tornare dopo in Italia. Negli USA non ho studiato musica per il teatro, nemmeno esisteva, ma produzione musicale, con l’ambizione di diventare producer. Tutto è cambiato con quella telefonata di Thierry Salmon, il primo contatto fatale con il mondo del teatro. Col tempo mi sono accorto che riuscivo a entrare nella logica dei registi. Fu Castri, che da un intervento tutto sommato modesto nelle Serve di Genet si rese conto che potevamo lavorare bene insieme.

Responsabile del suono, drammaturgo del suono, sound designer: chi è Franco Visioli?
La musica fa parte della mia vita da sempre, ho studiato sassofono e clarinetto basso e pure continuato a suonare con varie band fino a metà anni 90, poi il teatro ha preso il sopravvento. In effetti ancora oggi quello che amo di più è inventare temi e brani al pianoforte. Quanto alle definizioni, io cosa sono non lo so, lo lascio decidere agli altri. Forse per questo mi sono imbarcato nell’avventura registica con Ultima latet, di cui ho anche scritto il testo, per la prima volta. Lo stiamo ultimando in questi giorni, mi sto davvero divertendo.

Perché il lavoro sul suono dà vita spesso a relazioni di anni con i registi?
Succede naturalmente, il regista ha bisogno di poterti dare piena fiducia per i problemi legati al settore del suono. Contano anche gli spettacoli di successo, che fanno sì che il rapporto cresca e si sviluppi, com’è successo con Peter Stein e con Luca Ronconi. Il nostro lavoro spesso sembra concentrato sul rispondere alle medesime richieste con gli stessi effetti. È il contrario esatto: persino quando il regista usa le identiche parole di un altro otterrà un risultato diverso. Oggi è fondamentale avere con me in un computer un vasto archivio dei miei lavori, ma so anche che ogni volta bisogna rispondere alle necessità del momento e dimostrare da capo quanto vali.

L’esperienza europea presenta forti differenze con il contesto italiano?
Le differenze con l’ambiente austro-tedesco e svizzero esistono: lì hai sempre le tue prove, l’attrezzatura richiesta e sei considerato alla stregua degli altri componenti dello spettacolo. In Italia devi guadagnare i tuoi spazi, a volte sono interstizi. Tuttavia da noi non sei limitato da nessun paletto, hai una libertà che si regge su un equilibrio sottile, che spesso si ottiene conoscendo bene le caratteristiche dei teatri, le loro possibilità e soprattutto le persone che ci lavorano.

Perché la scelta della regia e non della composizione pura?
Per la composizione di una partitura orchestrale non mi sento sufficientemente preparato e conoscendomi vorrei maturare almeno molti anni di esperienza, siamo fuori tempo massimo.

Gli spettacoli fondamentali nel tuo percorso?
Sicuramente Elettra di Euripide al Festival di Spoleto, regia di Massimo Castri, con Galatea Ranzi nel 1993. Sia sul lato espressivo che su quello tecnico è stata una svolta per me. Ricordo l’impegno per ricreare l’ambiente sonoro della collina su cui dava la finestra di casa di Castri, i suoni della natura, degli animali. Per altri invece non saprei scegliere un solo spettacolo, con Peter Stein a Salisburgo e con Latella parlerei di un percorso complessivo.

Un percorso fitto di cambiamenti macroscopici: prendiamo la collaborazione con Latella.
Si può passare da Ma, lavoro su Pasolini in cui la drammaturgia è nata quasi in collaborazione con Linda Dalisi, con la supervisione di Antonio, a Aminta, in cui gli attori erano senza orpelli, le sole aste del microfono sulla scena vuota. L’intuizione di una chitarra rock a tracolla di Matilde Vigna ha fatto poi scaturire il percorso musicale. È divertente il gioco con cui cerco di ribaltare le varie indicazioni che Latella propone nel costruire lo spettacolo: cerco di aprire altre vie e tante volte Antonio accetta.

Non hai smesso di confrontarti, di rischiare con i giovani.
Forse è connaturato al mio modo di muovermi in un ambiente spesso povero di risorse economiche ma abitato da molti giovani di talento. Le due masterclass che ho tenuto a Venezia nel 2017 con Letizia Russo e lo scorso anno con Annalisa Zaccheria su scenografia e suono, mi hanno permesso il confronto con un gruppo notevole e variegato, le cui età andavano dai 21 ai 40 anni. Per molti la preoccupazione comune resta trovare lo sbocco lavorativo.

Hai un tuo decalogo di errori da evitare?
Senz’altro. Due esempi: sul piano espressivo, rifuggire dalla didascalia: non ci deve mai essere un rapporto diretto e immediato fra suono e quello che si vede in scena. Alle volte si fa fatica a evitarlo, perché sono spesso i registi che ti spingono anche non volendo verso soluzioni didascaliche. In ambito tecnico un errore ricorrente è l’uso dei panoramici per riprendere le voci degli attori, raccogliendo solo il suono del vuoto intorno a loro. Ci sono molti accorgimenti con cui il designer del suono cerca di intervenire sullo spettacolo e quando non ci riesce lo trovi triste, rincantucciato dietro alla consolle.

Quanto conta il progresso tecnologico degli ultimi decenni?
Nel recente passato ha prodotto una serie di cambiamenti impressionanti, epocali. Adesso la situazione, fra giga, computer, programmi, wifi tra palcoscenico e consolle, si è piuttosto stabilizzata. C’è comunque un tratto specifico della mia formazione che mi porta a rimanere attento ai cambiamenti tecnici, mettere alla prova le novità tecnologiche via via che si presentano.